Quando si raccontano storie di basket, o, volendo estendere il discorso, di sport americano, ci si imbatte spesso e volentieri in una serie di narrative ricorrenti. Data la connessione a filo doppio presente tra l’NBA e la cultura afroamericana, il racconto più frequente è quello tipico dell’immaginario hip hop: l’underdog che proviene da un contesto di povertà o comunque di disagio e che lotta per uscirne, riuscendo alla fine a coronare il suo sogno. Il rischio è dunque quello di presentare qualcosa di già visto e sentito mille volte e scadere in retorica e banalità. Ho provato ad evitare questa trappola scrivendo di Dorian Finney-Smith.
Un paio di dati biografici, innanzitutto. Dorian Finney-Smith nasce a Portsmouth, Virginia il 4 Maggio 1993. I nomi dei 5 tra fratelli e sorelle (Monna Zjea, Sha-Kiyla, Benjamin, Ra-Shawn e Da-Shawn) suggeriscono una certa creatività da parte della madre, la signora Desiree Finney, che cresce i suoi figli da sola. Frequenta la I.C. Norcom High School nella sua città natale, dove viene nominato per due volte Virginia High School Player of the Year e nel suo anno da senior fa registrare 18 punti, 10.7 rimbalzi e 3.8 stoppate a partita. La sua strada verso Virginia Tech sembra spianata, ma non è il campo a riservargli le prove più ardue. È una notte del 2008 quando accompagna suo fratello più grande Ra-Shawn, capitano della squadra di football del liceo, ad una festa. Ra-Shawn, benvoluto e noto a tutti con il soprannome di “Peanut”, mentre la festa si sposta in strada spara qualche colpo in aria con una pistola. Gli viene chiesto di andarsene, ma mentre sta rientrando nella sua macchina scoppia una lite con un uomo, anch’egli armato. Secondo i testimoni, sette colpi di pistola colpiscono il giovane ed è proprio Dorian, che ha assistito alla scena da pochi passi, a sorreggere il corpo sanguinante di suo fratello in attesa dell’ambulanza. Ra-Shawn morirà 13 giorni dopo e l’episodio lascia inevitabilmente un segno indelebile su Dorian, che non vorrà mai parlare dell’accaduto per anni. Ed ha solo 16 anni quando diventa padre per la prima volta; anni dopo definirà sua figlia come la ragione della sua maturità.
Dorian riesce comunque ad approdare alla tanto attesa Virginia Tech ed il suo primo anno è anche positivo (viene nominato nell’AAC All-Freshman Team), ma i risultati di squadra sono piuttosto scarsi e alla fine dell’anno coach Seth Greenberg viene licenziato: il figlio di Desiree decide che è ora di cambiare aria. A questo punto della storia avviene l’incontro con una figura fondamentale per la sua vita, professionale e non: si tratta di Billy Donovan, coach dei Florida Gators. Coach D è il primo, al di fuori della famiglia, a chiamarlo con il soprannome Doe-Doe ed è fondamentale, insieme ai suoi nuovi compagni di squadra, nell’aiutarlo a raggiungere di nuovo la serenità. Al momento del suo arrivo il ragazzo è timido, silenzioso, e non vuole mai parlare di suo fratello. Ma un giorno decide di aprirsi e da allora, per sua stessa ammissione, comincia a voler parlare più spesso di argomenti simili; soprattutto, più di ogni altra cosa, ricomincia lentamente a sorridere. La mamma, un’ex atleta sempre presente (e molto rumorosa dagli spalti) alle partite del figlio quando era in Virginia, alla prima pausa estiva lo trova cambiato, maturato. Doe-Doe, a causa delle regole NCAA, si ferma per un anno, ma lavora sodo sui fondamentali e nel 2013-14, nonostante parta dalla panchina, ha un ruolo importante nel raggiungimento delle Final Four da parte dei suoi Gators. Le due stagioni successive sono in crescendo, soprattutto a livello realizzativo, e giunge dunque l’ora di dichiararsi eleggibile per l’NBA. Il Draft è quello del 2016 che vede Ben Simmons e Brandon Ingram davanti a tutti e poi grande incertezza dietro. Dorian di certo non si aspetta una chiamata in una posizione così nobile, ma probabilmente non pensa nemmeno che tutte e 30 le franchigie lo snobbino sia al primo che al secondo giro. Undrafted, proprio come Arcidiacono, Caruso, Bryn Forbes, Derrick Jones Jr., Nwaba e soprattutto Fred VanVleet, tutti ragazzi che oggi hanno un posto più o meno stabile in rotazione in NBA. Il Draft non è una scienza esatta, e quell’edizione conferma la regola.
Una chiamata però arriva ed è quella dei Dallas Mavericks, che lo ingaggiano per il roster della Summer League. Finney-Smith non impressiona a livello statistico, e a tanti tifosi sembra semplicemente un giocatore che è discreto in molti aspetti ma senza eccellere in nulla. Il front office ed il coaching staff, evidentemente, non sono dello stesso parere e lo ingaggiano per tre anni, apparentemente come quindicesimo ed ultimo giocatore del roster. Per la prima volta, Dorian sente piangere sua madre quando la chiama per comunicarle la notizia.
Come già detto, la sua firma non è certo fonte di eccessivi clamori ma Rick Carlisle, come spesso succede, ha visto più lungo di tanti altri ed in piena coerenza con i suoi metodi di rotazione schiera Dorian per 31 minuti contro i Milwaukee Bucks alla sesta partita, dopo avergliene concessi meno di 5 complessivi nelle precedenti cinque. Le sue cifre in quella partita sono una fotografia abbastanza precisa delle sue qualità in quel momento: 5 punti (con 1/6 dal campo), 3 rimbalzi, 1 stoppata e 3 palle rubate, che testimoniano scarsa esperienza, problemi al tiro ma anche difesa e voglia di fare. Complice anche un roster che non riesce a ripetere l’exploit della stagione precedente e scivola piuttosto in fretta nella mediocrità, Dorian ha fin da subito molto spazio, partendo per ben 35 volte da titolare nelle 81 gare che gioca, totalizzando oltre 20 minuti di media a sera.
La seconda stagione non è altrettanto fortunata, con una fastidiosa tendinite lo tiene ai box per ben 57 gare; la terza, invece, lo consacra definitivamente come un role player chiave dei Mavericks. Le sue dimensioni (201 cm per 100 kg), unite ad un atletismo non comune, lo rendono un difensore molto versatile, che tiene i piccoli sul perimetro senza andare eccessivamente sotto con i lunghi se portato in post. Il suo arsenale offensivo resta limitato, ma le sue percentuali migliorano lente ma costanti e per Dallas tutto ciò è sufficiente per rinnovargli il contratto per altri 3 anni a 4 milioni a stagione. Al momento della firma sembra semplicemente un prezzo corretto, ma dopo solo sei mesi sembra essersi trasformato in un vero e proprio affare per i texani. Scopriamo perchè.
Il video qui sopra, oltre ad avere un titolo piuttosto azzeccato, qualifica bene il Dorian Finney-Smith versione 2018-19: ottimo atletismo e moltissima grinta sui due lati del campo, sempre pronto a buttarsi su una palla vagante o a strappare un rimbalzo al lungo avversario. A livello realizzativo non c’è molto da segnalare: Dorian non va molto oltre a semplici situazioni di tagli backdoor o bloccante sui pick and roll. Non possedendo particolari skills con la palla in mano attacca raramente il ferro ed il suo tiro da fuori rimane piuttosto ondivago (31.1%). Tutti i dati che da questo momento in poi verranno riportati nell’articolo sono presi dal profilo del giocatore di basketballreference.com.
Quest’anno, però, Dorian sembra aver fatto quel salto di qualità offensivo che gli ha permesso di scalare le gerarchie dei Mavs. Da inizio anno molto di ciò che succede nella squadra di Mark Cuban ha a che fare con lo sloveno numero 77, e DFS non fa eccezione. Luka Doncic si è preso con prepotenza possessi e attenzioni e tutto, almeno nella metà campo offensiva, ruota intorno a lui: il nostro eroe è colui che, insieme a Dwight Powell, ha capito più in fretta di tutti quale fosse il modo più funzionale di stare in campo con il Nino Maravilla. Sono aumentate di molto le triple dall’angolo, passando dal 34.6% al 49.8% del totale dei tiri dalla lunga distanza, e le sue percentuali dall’arco ne hanno risentito in senso estremamente positivo: il suo miglioramento dal 31.1% al 38.1% è uno dei più estesi di tutta la NBA. Quei 7 punti percentuali sono sostanzialmente la differenza tra un giocatore all’occorrenza battezzabile e un’arma tattica molto importante per aprire il campo per le scorribande di Doncic al ferro. Qui sotto ci sono letteralmente quattro clip di una situazione che si ripresenta puntuale ogni sera: Luka scarica e Dorian punisce la difesa.
L’importanza di Finney-Smith, in generale, è però difficile da cogliere negli highlights: il nativo di Portsmouth è il prototipo del glue guy e corrisponde perfettamente a quella definizione spesso abusata di giocatore che “sparisce nel sistema”. La sua puntualità nei tagli, l’abilità di farsi trovare sempre al posto giusto, la palla rubata o il rimbalzo offensivo nel momento topico della partita: si riesce ad apprezzare Dorian appieno solo sui 48 minuti. Detto ciò, la giocata spettacolare è sempre dietro l’angolo:
Un minutaggio più elevato e un aumento delle responsabilità offensive hanno fatto leggermente calare l’apporto nella sua metà campo, ma Dorian rimane uno dei migliori difensori di tutto il roster dei Mavericks, prezioso soprattutto quando si adotta una tattica di heavy switch, con cambi quasi sistematici sui pick and roll. Nonostante, come abbiamo visto, le sue doti difensive derivino soprattutto dalle sue capacità atletiche, con rapidità di piedi, apertura di braccia e doti di elevazione sopra la media, non è così raro vederlo effettuare ottime letture sulle linee di passaggio che si tramutano in palle rubate, come questa:
Lo abbiamo detto, la retorica del giocatore tutta grinta, intangibles e lavoro sporco per uscire da un ambiente difficile è una delle più frequenti, ma Dorian Finney-Smith è un personaggio ormai troppo poliedrico per accontentarsi di questa definizione. Fuori dal campo è diventato un imprenditore (è uno dei maggiori investitori nell’azienda di calze compressive Orfiks), sul parquet è ormai uno dei pezzi chiave dei Dallas Mavericks, l’unica squadra che ha creduto in lui e dove, a 26 anni e con quattro stagioni NBA alle spalle, ha raggiunto la maturità ed uno status definitivo nella lega. Il ragazzo che tutti chiamano Doe Doe è cresciuto esponenzialmente come uomo e come giocatore, e non è assolutamente detto che sia finita qui.