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E se Michael fosse tornato a 50 anni?

Davide Torelli by Davide Torelli
18 Febbraio, 2020
Reading Time: 13 mins read
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Copertina a cura di Marco D'Amato

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“Oh, don’t laugh. Don’t laugh”

Lo dice quasi piccato Michael Jordan, a coda di un discorso che ne ha consacrato la leggenda, in occasione del suo ingresso nella Hall of Fame di Springfield.

Lo abbiamo sentito e risentito tutti, affascinati da quella massima che riassume una carriera interrotta e recuperata a più riprese: “limits, like fears, are often just an illusion”. Potrebbe essere la frase ideale per accompagnare una promo qualsiasi del suo brand, invece diventerà esplicativa del Jordan giocatore. Uno che i limiti li ha sempre superati, facendo leva su una competitività quasi oltre la soglia del patologico.

Eppure – quell’11 settembre del 2009 – dal palco del Naismith Memorial in Massachussets, Michael enuncia un assurdo che suona quasi come minaccia, generando quelle risate di cui sopra, ad otto anni di distanza dal suo secondo rientro con la maglia dei Washington Wizards.

“One day you might look up and see me playing the game at 50”

Tornare di nuovo, a 50 anni, per sfidare una generazione cresciuta probabilmente con il suo mito, decisamente poco rinvigorito da un’avventura di proprietario avara di soddisfazioni (dapprima proprio nella capitale e poi a Charlotte). La prospettiva è affascinante per ogni amante del gioco, ed in virtù di quell’ossessione competitiva sopracitata, in molti guardano a quella dichiarazione come una promessa. Conoscendo Mike ci sta, non avrebbe certo paura.

Michael Jeffrey Jordan nasce il 17 Febbraio del 1963, e ieri ha soffiato la bellezza di 57 candeline. La storia ci racconta che no, non è mai tornato a giocare al compimento del mezzo secolo, come fece nel 2001 per festeggiare le 40 primavere sul parquet, per “amore del Gioco”. Non appare in campo dalla sfida del 16 aprile 2003 contro i Sixers di Allen Iverson, con il pubblico di Philadelphia ad omaggiargli un tributo infinito, ultimi in ordine di tempo per una stagione/passerella in cui ottiene testimonianza della propria grandezza.

Quella stagione vide gli Spurs di Tim Duncan e Tony Parker, vincere il secondo anello della loro storia ai danni dei New Jersey Nets, guidati da Jason Kidd. Nel quintetto proposto da coach Gregg Popovich resisteva ancora David Robinson (prossimo al ritiro con un nuovo anello al dito), mentre dalla panchina iniziava ad uscire Emanuel David Ginobili, che avrebbe segnato il destino della franchigia negli anni seguenti. Ecco, Michael sarebbe dovuto tornare 10 anni dopo allora, lasciando una lega trasformata rispetto ai suoi dominatissimi nineties, destinata a rivoluzionarsi ulteriormente in vista del campionato 2012/2013.

Quindi, facciamo un gioco di pura e semplice immaginazione: se MJ fosse stato così pazzo da tornare per la terza volta, sfidando i LeBron James di turno ad avere la meglio su un vecchio cinquantenne, cosa sarebbe successo? Come sarebbe andata? A prescindere dalla pietra miliare a livello di longevità, ne sarebbe valsa la pena?

For the love of the game

Perché – aspettate un attimo – la terza esperienza in Nba di Michael ebbe un senso effettivo, alla luce dei risultati ottenuti? Voglio dire, quell’uomo si era ritirato dopo una delle sequenze più incredibili mai viste in una gara decisiva di Finals – quella suggellata da The Shot – con il sesto titolo in otto anni ed  alle porte della cosiddetta “stagione con l’asterisco”, quella del lockout. Avrebbe dovuto giocare 50 partite dopo un lungo periodo di inattività, stavolta senza la guida di Phil Jackson, senza Scottie Pippen al suo fianco, obbligatoriamente lontano dai Bulls considerando i rapporti maturati con “i due Jerry”, Krause e Reinsdorf. Chi glielo faceva fare di continuare?

Tanto il copione lo conosceva già, avendolo praticato in condizioni più o meno similari nell’ottobre del 1993: conferenza stampa al Berto Center, frasi di circostanza, qualche sorriso in più e tanti saluti. Inizia una nuova vita.

Anche se nel giro di poco tempo finisce a ricoprire il ruolo di President of Basketball Operation per i Wizards, con i quali aveva ripreso la routine di allenamento, meditando l’ennesimo colpo di scena nella sua esistenza inquieta. Aveva detto che al 99,9% era finita, dopo l’esperienza a Chicago ed il repeat of three-peat. Adesso quello 0,1% diventava decisivo: la percentuale più improbabile che si possa esemplificare, che si tramutava in realtà come un fulmine a ciel sereno. Con l’idea di sfidare la sua mente e soprattutto il suo corpo, come mai fatto prima.

Ufficialmente ritorna “for the love of the game”, come dichiara nella conferenza stampa del 25 settembre 2001, ma probabilmente dietro c’è qualcos’altro. Anzitutto la volontà di prendersi un’ultima passerella lunga due anni, dopo aver abbandonato senza preavviso, e quindi senza farewell tour o similari. Da un punto di vista sportivo poi, ci sarebbe l’impresa di riportare i Wizards ai playoff, che considerando le condizioni in cui si trovano non sarebbe decisamente cosa da poco.

Ma più che altro, la sensazione è che il fuoco che muove MJ sia sempre strettamente circoscritto al suo ego ed alla sua natura competitiva: dimostrare ai nuovi talenti della lega di essere ancora in grado di segnargli in testa, di poter replicare (fisico permettendo) certe prestazioni che ne avevano caratterizzato la leggenda, senza alcuna velleità di vittoria.

Considerando tutti gli annessi e connessi, si tratta di una serie di prospettive realistiche, che si concretizzano più in nome dell’amore per sé stesso (e per la propria leggenda), che del gioco in verità. In buona sostanza, la NBA che ha lasciato nel 1998 non è molto diversa da quella che ritrova, se non per la crescita di certi giocatori e l’ingresso di qualche nuovo protagonista. Fa appena in tempo a vedere il “suo” Phil Jackson completare l’ennesima tripletta, stavolta con i Lakers dell’erede Kobe Bryant, capace di dar vita ad una delle coppie più devastanti della storia a fianco di Shaquille O’Neal.

Il record dei Wizards si attesta sulle 37 vittorie in entrambi gli anni del ritorno, chiaramente restando fuori dalla post season, malgrado l’attenzione suscitata in ogni singola gara, generata dalla curiosità di vedere come può cavarsela il vecchio Jordan partita dopo partita. Lui chiude la stagione 2001/02 con 22.9 punti, 5.2 assist e 5.7 rimbalzi per gara, regalando qualche giocata delle sue, superandosi più di una volta con prestazioni decisamente vintage (diviene, contro gli Hornets, il giocatore più vecchio di sempre a metterne 50 a referto, per dire). Soprattutto, aiutando a crescere il giovane Richard Hamilton, che di lì a poco avrebbe fatto le valigie alla volta di Detroit, dove si sarebbe tolto una discreta soddisfazione conquistando il titolo del 2004 da protagonista.

L’anno seguente è dichiaratamente quello dell’addio per Jordan, che con fatica riesce a mantenersi sui 20 punti per partita, accompagnandoli con poco più di 3 assist e 6 rimbalzi. Quel Kobe che gli toglie la soddisfazione del buzzer beater vincente all’All Stars Game di Atlanta (rovinando storicamente il classico lieto fine all’americana, nella sua serata di celebrazione), si infrange in Semifinale di Conference contro gli Spurs di Tim Duncan, destinati al trionfo contro i New Jersey Nets come già detto. È così che Michael termina la sua epopea, arrendendosi finalmente al declino fisico, all’età che avanza ed alla perdita di ogni motivazione oggettiva.

Si chiude un capitolo (il terzo) senza particolari scossoni, se non quello più fragoroso, che riguardava un rientro insperato, per la verità passato sotto traccia nel cordoglio post 11 settembre (quello del 2001, poche settimane prima del suo annuncio). Ma contemporaneamente dimostrando che pur con un calo progressivo della condizione, il bagaglio tecnico che porta con sé lo renderebbe giocatore dignitoso per ancora molti anni, considerando l’infallibilità del suo proverbiale tiro dalla media e quelle capacità di passatore che lo rendono molto pericoloso, accettando il nuovo ruolo di ala piccola da ricoprire in campo.

Ed infatti non passa molto tempo prima che nuovi rumors si facciano avanti, secondo i quali MJ potrebbe addirittura sbarcare a Milano alla corte di Giorgio Armani e dell’Olimpia. Chiaramente non se ne fa di niente, anche se non sapremo mai quanto la trattativa sia stata vicina a concludersi, oppure una semplice voce senza fondamento. Di fatto, da quel momento MJ tornerà nel suo North Carolina prendendo le redini di Charlotte, confermando più di qualche dubbio già emerso durante i suoi anni da dirigente a Washington, lanciando il sasso rispetto ad un suo possibile ritorno a 50 anni compiuti, fortunatamente mai realizzatosi.

L’effetto sliding door

Se avesse voluto veramente tornare a 50 anni, Michael Jordan avrebbe dovuto farlo nella stagione 2012/13, dieci anni dopo il suo ultimo e definitivo ritiro. Un periodo sufficientemente lungo per trovarsi di fronte una lega stavolta rivoluzionata, anche nella geografia oltre che nei protagonisti. Basti pensare che in quel frattempo a Seattle la franchigia era scomparsa, e che i Thunder di Oklahoma City avevano appena raggiunto (e perso) una finale contro i Miami Heat di Lebron James. Dai “sostituti” dei Sonics era appena uscito un certo James Harden destinato a Houston, avviando la progressiva destrutturazione di un roster di assoluto talento formato da nuove leve come Kevin Durant, Russell Westbrook e Serge Ibaka. Malgrado le 60 vittorie stagionali, si sarebbero schiantati contro i Memphis Grizzlies di Gasol e Rudy Gay, e soprattutto di Zach Randolph, statisticamente già in calo dopo i trascorsi a Portland e New York.

Pochi mesi dopo dall’addio definitivo di Jordan alla Nba, con il Draft 2003 erano entrati quattro giocatori capaci di cambiare gli equilibri della lega per anni come Carmelo Anthony, Lebron James, Chris Bosh e Dwyane Wade. Se fosse mai tornato a 50 anni, avrebbe visto il primo della lista laurearsi capocannoniere con 28.7 punti per gara, divenuto simbolo dei Knicks dopo 8 onoratissime stagioni a Denver. Tra l’altro, capace di guidare i newyorkesi nell’ultima stagione vincente ad oggi, conclusa con 54 vittorie ed un titolo di Division in stagione regolare, sconfitti in Semifinale di Conference contro i Pacers di Paul George.

Gli altri tre protagonisti di quel Draft (indimenticabile la fallimentare scelta di Darko Milicic per i Pistons con la pick numero 2) giocavano adesso nella stessa squadra, quella destinata a laurearsi campione. Wade era diventato bandiera di Miami da subito, portando gli Heat sul tetto del mondo già nel 2006 con Shaquille O’Neal, mentre Bosh era arrivato direttamente da Toronto nel 2010, lo stesso anno della Decision di Lebron James.

Si, perché se Jordan avesse optato per il ritorno, avrebbe osservato le conseguenze del primo passaggio di Lebron con i Cleveland Cavaliers, clamorosamente portati in finale senza troppe speranze, ed abbandonati per approdare nel super team della Florida e vincere l’agognato anello. Un successo che clamorosamente non arriverà al primo tentativo, con i Mavericks capaci di stupire il mondo grazie al talento di Nowitzki e le ultime cartucce da sparare per Jason Kidd (oltre che grazie alla pazzia cestistica di Jason Terry).

Per ripetersi, James e compagnia avranno bisogno di un innesto fondamentale apparentemente sul viale del tramonto: quel Ray Allen ormai trentasettenne, capace di impattare la decisiva gara 6 contro San Antonio con una clamorosa tripla in step back , rimandando tutto alla “bella” in cui Lebron James registra 37 punti ed il secondo titolo consecutivo di Mvp delle Finals.

Però, se volessimo trovare due tratti comuni tra l’ultima stagione di Michael Jordan da Wizard, e quella del suo eventuale rientro a 50 anni, dovremmo ricercarli nella costa ovest degli Stati Uniti. Il primo è rappresentato dagli Spurs di Gregg Popovich, capaci di restar per oltre un decennio ai vertici della lega, grazie a quel trio formato da Duncan, Parker e Ginobili ormai entrati di diritto nella schiera dei veterani del campionato. Malgrado la bruciante sconfitta contro gli Heat, nella stagione 2011/12 aveva fatto il suo esordio un Kawhi Leonard passato sotto traccia nel Draft 2011 (quindicesima scelta assoluta) e destinato ad una crescita incredibile, che lo avrebbe portato a vincere il titolo di Mvp delle Finals 2014 permettendo ai suoi di alzare al cielo l’ultimo Larry O’Brien Trophy ad oggi.

L’altro tratto in comune, invece, ha le sembianze di un giocatore giunto alla sedicesima stagione in carriera: Kobe Bean Bryant. Il campionato dell’ipotetico rientro di MJ avrebbe riproposto uno scontro ancora una volta impari a vantaggio del Laker, in campo per la sua ultima vera stagione ad alto livello, almeno da un punto di vista personale. Si tratta infatti di quel campionato nato da un mercato scellerato, strutturatosi attorno all’arrivo di Steve Nash e Dwight Howard a fianco di Gasol e Kobe, nel tentativo di regalar a quest’ultimo l’ultima chance per vincere il sesto anello. Quello che lo avrebbe messo sullo stesso piano (anche numerico) proprio del “modello” Jordan.

Le cose andarono subito malissimo, per una squadra incapace di trovare le soluzioni per funzionare in campo, costringendo Bryant agli straordinari per raggiungere di rincorsa l’ultima posizione playoff disponibile. Grazie ad una serie di prestazioni incredibili del loro numero 24, i Lakers riusciranno a conquistare la piazza numero 7 con un record identico a quello dei Rockets, ma il Black Mamba pagherà i suoi sforzi sovrumani con la rottura del tendine d’Achille contro Golden State, conducendo i suoi alla vittoria con 34 punti.

In quella gara un tale Stephen Curry – astro nascente della lega in quel momento – ne mette 47 con 9 triple, per un trend che lo avrebbe portato di lì a poco a dominare la lega cambiandone sostanzialmente le abitudini di gioco, con un range di tiro destinato ad allontanarsi e ad essere utilizzato ancor più di allora. In ogni caso, per Bryant quella sarebbe stata l’ultima vera stagione prima di una spirale di infortuni che lo ha lentamente portato al ritiro 3 anni dopo. Sarebbe stato sicuramente singolare vederlo battagliare per un’ultima volta con Michael, raggiunti i 34 anni d’età rispetto al mezzo secolo potenziale del “più grande di sempre”.

Che se mai avesse lontanamente pensato di tornare, lo avrebbe fatto all’interno in un gioco in piena trasformazione, distante da quello che aveva percorso dapprima negli anni 80 e poi nel decennio di successi che lo ha consacrato nella storia. Tutti quei cambiamenti che sarebbero divenuti realtà in breve tempo – la sparizione dei tiri dal mid range, l’abuso delle soluzioni da dietro l’arco, lo small ball e la riscrittura del ruolo di centro – avrebbero reso difficile il gioco anche al Michael del 1998 catapultato in quella realtà, figuriamoci alla sua improbabile versione cinquantenne.

Certo che, ammettendo che rientrare nei Wizards non avrebbe avuto nessun senso, se mai si fosse deciso cocciutamente a scrivere una nuova pagina di storia, lo avrebbe potuto fare o nei cari vecchi Bulls, o nei suoi Bobcats (non ancora ritornati Hornets). Lo avesse fatto nell’Illinois, avrebbe preso parte di una versione orfana di Derrick Rose (nel bel mezzo dei suoi calvari fisici), capace comunque di arrivare in semifinale di Conference grazie ad un Marco Belinelli in grande spolvero, con un Jimmy Butler ancora acerbo, al secondo anno nella lega.

In quella squadra priva del suo faro – ma in grado di lottare grazie a giocatori come Luol Deng, Carlos Boozer e Joakim Noah – magari Jordan sarebbe riuscito anche a ritagliarsi qualche decina di minuti per gara, rappresentando un’arma più psicologica che tecnica da usare contro gli avversari. Per quanto riguarda i Bobcats, invece, la totale penuria di talento causata anche da scelte discutibili delle quali lui stesso era responsabile (vedi, ad esempio, Michael Kidd-Gilchrist), ne avrebbe favorito più di mezza apparizione. Magari a fianco di Kemba Walker, appena al secondo anno nella lega.

Infatti, a prescindere dalle dichiarazioni del 2009, le voci di un suo effettivo rientro presero notevolmente campo con l’avvicinamento al 17 febbraio, anche per una sola e singola partita. Del resto Mike era il proprietario della franchigia e si stava allenando con la squadra, pertanto avrebbe potuto fare quello che voleva, in quella situazione. Secondo lo storico preparatore personale Tim Grover, avrebbe avuto tutte le carte in regola per farcela, e per essere da subito il più forte a roster dei Bobcats, nell’eventualità.

Anzi, ad un certo punto venne indicata anche la partita possibile del ritorno, quella del 26 gennaio contro i Timberwolves, ma nonostante l’assenza di smentite sul momento, la prospettiva si rivelò utopica, anche giustamente. Nonostante tutto però, un Jordan capace di contraddire per l’ennesima volta la parola data (ammesso che quella sparata a Springfield potesse essere ritenuta tale), ci tenne comunque a dimostrare al mondo di poter ancora schiacciare, immortalato in un video finito su Youtube destinato chiaramente a fare il giro del mondo. Seppur l’avversario non fosse nient’altro che un bambino.

Un qualcosa che niente aggiunge al suo mito, tanto meno a ciò che MJ è stato per la lega nei momenti più brillanti della sua carriera, all’interno della quale avremmo tranquillamente potuto fare a meno della passerella ai Wizards, figuriamoci di un eventuale ritorno da cinquantenne.

Tags: Michael Jordan
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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