AS: Meglio di quanto pensassi. Però comunque, c’è molto affetto per le squadre ma le realtà sono molto più piccole. Il discorso sulla vita notturna, per esempio: puoi considerarla se vai a Milano, però non esiste in altre realtà più piccole. Spesso il basket in Italia è legato a città più piccole con una forte tradizione cestistica, perciò per noi è interessante avere una prospettiva di come funziona da voi.
Continuo a parlare, così da escludere totalmente il mio collega dalla conversazione. Quando abbiamo parlato con Riccardo Fois abbiamo avuto la possibilità di chiedergli cosa significhi lavorare con grandi allenatori e cosa portano i grandi allenatori alle varie organizzazioni. Lui per esempio è stato assistente per la Nazionale e lì ha lavorato con Ettore Messina, e a Gonzaga ha lavorato con Mark Few: quando gli abbiamo chiesto che impatto abbiano queste figure, lui ha risposto che entrambi sono persone molto serie e rimarcano molto il concetto di famiglia, sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male. Tu hai lavorato con vari allenatori come Mike Dunleavy Sr., Vinny Del Negro, Doc Rivers, ovviamente Gregg Popovich, Brett Brown con l’Australia, tutti in situazioni differenti: se dovessi riassumere in una parola ciò che ciascuno di loro ha portato in ciascuna squadra, quale sarebbe?
MD: Coach Dunleavy era molto bravo con X’s & O’s, molto bravo tatticamente; tutti i coach lo sono, però credo che lui non riceva abbastanza credito per quanto lo sia. Doc fa un ottimo lavoro nel legare con i suoi ragazzi, ha sempre il polso della situazione e sa quando c’è bisogno di urlare, quando c’è bisogno di fare un passo indietro o di farli ridere invece di arrabbiarsi, e cose di questo tipo. Vinny aveva una grande capacità di essere coinvolgente, di includere chiunque in tutte le situazioni. Con Doc ho passato un solo anno e non è stato tra i miei migliori. Lui è estremamente intelligente e ha la capacità di convincere tutti, è carismatico; questo suonerà male, anche se in realtà è un complimento, perché tutti i coach ne hanno bisogno: ha grandi capacità da venditore, riesce a convincere tutti i giocatori, è il saper “vendere” ciò che dici è una parte importante dell’allenare. La cosa più importante per un allenatore, ed è qualcosa che non tutti hanno, è la capacità di essere autentici: i giocatori riescono a capire se lo sei o no, il loro “rilevatore di stronzate” è il migliore in circolazione, loro sanno quando gli stai dicendo stronz… quando gli stai mentendo meglio della maggior parte della gente che conosco. Se loro non pensano che l’allenatore sia davvero autentico, nasce un problema e i giocatori cominciano a perdere fiducia. I migliori coach hanno questa qualità: coach Popovich è quello che vedete, i giocatori lo vedono, sanno quanto tenga a loro ma anche quanto voglia vincere. Credo che generalmente ciò che serve ai coach sia essere autentici e trasparenti con i giocatori, ed è la chiave di tutto.
AB: Mo, parliamo un po’ del versante giocatori. Avendo lavorato ai Clippers e agli Spurs in quegli anni, significa che hai lavorato con Tim Duncan, Ginóbili, Parker, CP3, Blake Griffin, Grant Hill, Billups, DeAndre Jordan, Jamal Crawford e potrei continuare. Sappiamo che hai una relazione particolare con Jamal, che ha perfino parlato di te durante di discorso di accettazione del premio di Sixth Man of the Year nel 2014. Due domande: cos’hanno in comune questi grandi giocatori, e se potessi creare il giocatore perfetto con determinate caratteristiche di ciascuno di loro (per esempio il QI cestistico di Chris Paul, cose così), come sarebbe questo giocatore?
MD: Riguardo la prima domanda, credo che una caratteristica comune a tutti questi giocatori sia il loro desiderio di essere i migliori, è qualcosa che li distingue, la loro etica del lavoro è fuori dal normale. Una bella storia su Blake Griffin è che quando andava a girare uno spot pubblicitario si faceva mettere su un campo da basket vicino, in maniera tale da potersi allenare sul tiro tra una ripresa e l’altra. Si tratta proprio del livello successivo del voler lavorare duro, non solo sul loro gioco ma anche sulla loro forma fisica. Timmy [Duncan] è semplicemente il meglio, ovviamente è una leggenda, un Hall-of-Famer come la maggior parte di loro; in un certo senso tante persone sono state fortunate a poter capitare attorno a giocatori di questo tipo. C’è qualcosa che li rende tutti unici: per Chris Paul è la sua fame e la sua competitività, che a volte è troppa e fa impazzire i suoi compagni di squadra, e questo l’ha un po’ penalizzato a volte; il desiderio di vincere e di ottenere qualsiasi vantaggio possibile per assicurarsi la vittoria lo motiva e lo rende un grande giocatore. Manu [Ginóbili] era il mio giocatore preferito prima che arrivassi agli Spurs, era divertente anche solo essere attorno a lui. Quel ragazzo era un gamer, volava fuori dal campo, faceva queste cose che sembravano impossibili: una volta lo vidi fare stretching, e per quanto sia difficile rendere l’idea in un podcast, il modo in cui faceva stretching… aveva entrambe le gambe messe come se dovesse fare gli splits ma in realtà era come se stesse facendo degli squat, però con entrambe le ginocchia verso fuori. Mi ricordo averlo visto e avere pensato: “Non riuscirei a muovermi per un mese dopo aver solo provato a fare quella cosa, quanto sei flessibile?”. Questo era Manu, ha una creatività, una sregolatezza che nemmeno Pop riusciva a contenere; quando arrivò agli Spurs Pop dovette trovare un modo di allenarlo, e parte di quello era lasciare che Manu fosse Manu, perché pur facendo alcune cose che lo avrebbero fatto arrabbiare, avrebbe fatto soprattutto un sacco di giocate stupende e vincenti. Hai menzionato Jamal: Jamal è il mio uomo, lo adoro, e abbiamo davvero legato. Probabilmente sarebbe in grado di trovare il canestro anche adesso, il suo ball-handling è fenomenale. Lui studia veramente tanto il gioco, e se hai bisogno di un canestro basta metterlo in campo che lui te lo farà avere: mi pare che abbia quattro partite da 50 punti con quattro squadre diverse, è assurdo, e tutto ciò partendo dalla panchina. Penso che tutti questi ragazzi abbiano proprie caratteristiche che li hanno resi grandi, ma ciò che li accomuna è la loro fantastica etica del lavoro. Per quanto riguarda la seconda domanda, credo che prenderei la follia e la creatività di Manu, il QI di Chris Paul, la velocità di Tony [Parker] (la gente si dimentica di quanto fosse veloce una volta, era come un piccolo fulmine, a volte neanche le telecamere gli stavano al passo).
AB: Sono un fan dei Phoenix Suns, mi ricordo ancora le serie contro gli Spurs. Era come Flash, non riuscivi a vederlo.
AS: A proposito, Mo, nel nostro gergo abbiamo creato una parola; la definizione di questa parola è “bandiziolata”, perché il cognome di Andrea è Bandiziol, quindi potremmo tradurla come bandiziolation e il suo significato è “menzionare la tua squadra preferita anche quando non ne stiamo parlando affatto”.
MD: I love it! Questo è amore! Denota grande amore per la tua squadra, senza dubbio. E la stagione è stata dura per loro dopo quella partenza, quindi posso solo immaginare cosa sia successo l’altra volta quando avete avuto il coach dei Suns, dev’essere stato un momento non da poco per te.
AB: Assolutamente.
AS: Lo stavo guardando, aveva una luce negli occhi.
AB: Eravamo rimasti alla velocità di Tony.
MD: Sì, la velocità di Tony, poi la difesa, le abilità a rimbalzo e il gioco in post di Tim, l’atletismo di Blake (devi prenderlo per forza, senza dubbio) e la sua etica del lavoro. Tutti questi ragazzi sono fantastici a loro modo, e non l’ho menzionato ma ho passato del tempo con Grant Hill verso la fine della sua carriera ed è stato stupendo, lui è un altro grandissimo essere umano con cui ho avuto la fortuna di lavorare. La ragione per cui questi ragazzi sono in NBA non è solo perché sono atletici e sono bravi, le persone che hanno solo quello non ce la fanno in NBA, questi ragazzi hanno lavorato duro e si meritano tutto ciò che hanno avuto.
AS: Stessa domanda ma in un contesto differente: com’è l’atmosfera quando sei assieme a una squadra olimpica? Perché immagino che questi giocatori si conoscano da quando sono piccoli, perché hanno fatto tutta la trafila delle giovanili assieme e si incontrano per due settimane per giocare con un calendario diverso e degli avversari diversi. Quanto spazio di manovra c’è per coach e giocatori per creare un legame, una sorta di cultura?
MD: Sì, è difficile. È più di due settimane, hai un’intera offseason, ma è comunque difficile perché devi creare in poco tempo uno spirito di squadra che di solito si acquisisce in un anno intero. Sarò onesto con voi, lavorare con la nazionale australiana è stata una delle mie esperienze preferite, la squadra di cui ho più preferito fare parte. Ogni volta che Joe Ingles arriva in città io e lui passiamo venti minuti nello spogliatoio dopo la partita, non parlando neanche di basket ma della vita e cose del genere.
AB: Joe Ingles è uno dei cinque giocatori NBA con cui preferirei fare un podcast. Non so se hai mai ascoltato il pod di Zach Lowe con ospite Joe Ingles, è stato fantastico. Mi fa morire dal ridere.
MD: Sì, lui è un grande, è uno a cui piace scherzare, sai che si divertirà… È un tipo in gamba. Ma, sapete, la squadra mi ha accettato fin dal primo momento, sin da quando coach Brown mi ha introdotto dicendo “questo è il nostro video coordinator, è con noi”, i giocatori mi hanno fatto sentire come uno di loro. E per me si è creato un legame speciale con molti di quei ragazzi. Ma, tornando alla tua domanda, è molto complicato. E questo credo sia lo svantaggio che gli Stati Uniti hanno rispetto ad altre squadre, tipo la Spagna. Quei ragazzi hanno giocato assieme per così tanto tempo che, anche se giocano con squadre diverse durante la stagione regolare, quando tornano riescono a cliccare immediatamente, è come con il tuo migliore amico: riprendi esattamente da dove avevi lasciato. La nazionale australiana è stata costruita in questo modo. Loro giocano assieme da sempre, in pratica, ma lo hanno sempre fatto con stili diversi. Quando coach Brown è stato assunto, giocavano in modo simile a quello di oggi; ha messo le basi per una cultura e l’ha fatta crescere. E quando coach Lemanis ha preso il suo posto – lui era un assistente di Brett – si è attenuto a quella cultura, aggiungendo ovviamente del suo, perché, come ho detto prima, devi aggiungere il tuo, quello che pensi possa funzionare. E quindi ha aggiunto il proprio ed è stato con la squadra per molto tempo, penso si sia appena dimesso. Brett Brown, che sta riprendendo in mano la squadra per queste Olimpiadi, sta proseguendo con quella cultura e penso si possa vedere quello che è stato costruito.
Per Team USA è complicato, invece, perché ogni anno ci sono giocatori differenti. La squadra che parteciperà alle prossime Olimpiadi sarà molto diversa rispetto a quella che ha partecipato agli scorsi Mondiali. E, ovviamente, sono comunque forti, porteranno i migliori giocatori e saranno i favoriti, ma è difficile costruire quell’intesa in così poco tempo, non puoi forzarla, non puoi chiudere i giocatori in una stanza e dire “Perfetto, quando ci vediamo tra due ore avrete un’intesa perfetta”. Ci vuole molto tempo. L’intesa è così fragile, e io non penso le persone lo capiscano. Sono esseri umani, dopotutto. Uno di loro potrebbe guardare qualcun altro e dire: “Non mi piace il modo in cui sta parlando di me” e cose del genere. Questi equilibri possono spezzarsi molto in fretta. La Spagna e l’Argentina ci insegnano che ci vuole del tempo per acquisire quei meccanismi, quella sensazione di giocare con i tuoi migliori amici che ti porta a riprendere da dove avete lasciato anche se non li hai visti per un anno: prenderlo in giro per i suoi capelli, scherzare sul fatto che sia ingrassato, tutte queste cose. Credo che questa sia la chiave delle nazionali, costruire quel tipo di cultura e mantenerla viva, perché i giocatori e gli allenatori cambieranno di continuo.
AB: Andre, so che dovresti fargli un’altra domanda riguardo quest’argomento che non è relativo alla stagione NBA, ma visto che stiamo parlando di intesa vorrei farti una domanda riguardo questa stagione NBA: sei preoccupato per l’apparente mancanza di intesa dei Clippers?
Mo: Sì, ero e sono preoccupato. Jovan Buha e Sam Amick ne hanno scritto un articolo su The Athletic a riguardo, circa due settimane fa.
AB: Sì, è esattamente quello a cui sto facendo riferimento.
MD: Sì, non è che hanno una pessima intesa o che si odino a vicenda, è che non hanno avuto abbastanza tempo sul parquet assieme per conoscersi bene. E sapere che se Kawhi Leonard sta andando da questa parte, io che sono Landry Shamet o Paul George devo fare un movimento da quest’altra parte. Questo tipo di intesa è importante. I Lakers ce l’hanno, i Bucks ce l’hanno. I giocatori di Milwaukee quando fanno quella sorta di wrestling routine sembra che si divertano. Abbiamo visto l’altra sera durante la partita dei Lakers, quando LeBron ha realizzato quelle quattro triple di fila e hanno chiamato timeout, l’intera panchina si è alzata in piedi, saltando su e giù, divertendosi e cose del genere. Sapete, per i Clippers non è che sia colpa di nessuno, è che hanno avuto infortuni, non hanno avuto l’opportunità di allenarsi al completo, mi pare che abbiano giocato con Kawhi e George solo venti delle quarantacinque partite disputate fino ad ora. Questo è un problema. E la frustrazione sul campo si riversa nello spogliatoio. Io sono stato ad alcune delle loro partite, i Grizzlies li hanno presi a calci nel sedere, hanno concesso 132 punti ai Knicks vincendo a malapena la partita. Parliamo spesso di load management e di come influisca sui giocatori, ma non parliamo mai di come influisca sugli altri. E penso che stia venendo un po’ a galla con questi problemi di intesa. Ci sono alcuni che non ne sono abituati. I giocatori dei Clippers l’anno scorso hanno giocato tutte le partite, senza mai prendersi una serata libera. E adesso ci sono due superstar. Una ha vinto il titolo… e a me piace dire alle persone che il load management non ha funzionato per i Raptors l’anno scorso, perché è vero che hanno vinto il titolo ma Kawhi a malapena è riuscito a terminare la stagione e i playoff, e l’altra, Paul George, che è arrivato dopo un’operazione alle spalle. Devi farli riposare, ma non penso che nessuno di loro si fosse reso conto dello sforzo che avrebbero dovuto pagare tutti gli altri giocatori. Il tempo a disposizione non è infinito, ma ne hanno abbastanza. Doc Rivers è un grande allenatore, è intelligente e tutti noi sappiamo, anche se adesso siamo stanchi di parlarne, della sua “filosofia Ubuntu”, che ha portato alla luce ai tempi dei Celtics. Ma, come detto, l’intesa di squadra non si può forzare né fingere. È qualcosa che o riesci a raggiungere e sviluppare nel tempo o no, e se non riesci diventa un problema, anche se i Clippers hanno abbastanza talento da poter compensare la mancanza di una totale intesa.
AS: È pazzesco, parleremo dopo ovviamente dopo di analytics con Andrea che è “l’uomo delle analytics” del podcast, ma non so se esista un altro sport in cui la parte analitica e quella emotiva/artistica sono importanti allo stesso modo, completandosi a vicenda, in un certo senso.
MD: È difficile, perché non puoi misurare tutto con le analytics, perché non c’è alcuna metrica che ti dirà se questo giocatore ha fatto una buona rotazione difensiva o se un giocatore riesce a realizzare un canestro, nonostante il tiro gli sia stato contestato alla perfezione. Questo è dove diventa complicato con le analytics. Funzionano nel baseball, perché tutto è tracciato. Nella NBA ci sono molte più variabili, e per questo riscontriamo altrettante difficoltà. Le analytics sono utili, non sono anti-analytics, le ho utilizzate e vanno di pari passo con i video e l’eye-test, ma non abbiamo ancora trovato il modo per registrare tutto quel che accade sul parquet, quindi non possiamo dire pienamente “le analytics hanno detto questo, quindi è così”, bisogna comunque cercare di capire il perché.
AS: È proprio il discorso che hai fatto nell’ultima puntata di Nerder She Wrote, che stavo ascoltando prima in macchina. In Italia si fa la stessa cosa, si ha la tendenza a opporre l’eye-test e il feel for the game alle “fredde” analytics. Una volta parlavo con un professore di Scienze, che diceva che secondo la gente “la scienza rendeva il mondo meno magico”; in realtà è il contrario, perché più conoscenza hai di qualcosa, più affascinante e magico diventa. Questo è il motivo per cui il lavoro che tu e i tuoi colleghi fate è così importante, anche solo per far entrare le analytics nel discorso. MD: Ho molto apprezzato la tua analogia, sono d’accordo col fatto che la scienza non tolga la magia ma la aggiunga, come dice il tuo professore. Le analytics aiutano, sono parte del puzzle, ma non sono mai il puzzle intero, così come non lo sono i video: tutto va mano nella mano. Penso che la gente che “resiste” alle analytics è in parte perché non le capisce e in parte perché noi non facciamo un buon lavoro a presentarle e a spiegarle.
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Prima parte di traduzione a cura di Daniele Sorato e Michele Di Mauro