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Mo Dakhil su The ANDone Podcast – parte 1

Daniele Sorato by Daniele Sorato
16 Febbraio, 2020
Reading Time: 22 mins read
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Copertina a cura di Sebastiano Barban

Copertina a cura di Sebastiano Barban

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In occasione dell’ultima puntata di The ANDone Podcast, abbiamo avuto l’opportunità di fare quattro chiacchiere con Mo Dakhil, giornalista di The Athletic e Bleacher Report ed ex Video Coordinator di Clippers e Spurs. Il podcast è stato registrato -per ovvi motivi- in lingua inglese e di conseguenza abbiamo pensato che sarebbe stato utile farne una traduzione da suddividere in due parti. Buona lettura!

Andrea Snaidero: Ciao a tutti appassionati della NBA e benvenuti a un altro episodio di The AndONE Podcast. Io sono Andrea, il vostro presentatore, e dall’altro lato del microfono il mio omonimo e omologo Andrea. Come va, Andrea?

Andrea Bandiziol: Ciao Andrea, tutto bene, tu? Non siamo abituati a questo tipo di introduzione in inglese…

AS: I nostri fan staranno dicendo qualcosa come “Come mai stanno parlando in inglese e in italiano?”. Ecco, non vi stiamo facendo nessuno scherzo, come potete immaginare abbiamo un ospite.

AB: Un grande ospite.

AS: Un ospite da prima fila, da top-tier: siamo molto lieti di presentarvi Mo Dakhil, di The Athletic. Come va, Mo?

Mo Dakhil: Ciao ragazzi, mi avete pompato troppo! Non so neanche se sono nel top-tier, avete detto tutte queste cose e stavo pensando “Questo è troppo per me!” (ride).

AB: “State parlando di me per caso?”.

MD: Esatto, tipo “C’è qualcun altro in linea?”.

(risata di gruppo)

AS: Se c’è qualcuno di voi in ascolto che non conosce ancora Mo, per prima cosa andate a seguirlo su Twitter e andate a seguire tutto ciò che fa, dovunque parli o scriva ci sono sempre dei contenuti ottimi. Più tardi parleremo di tutto ciò più dettagliatamente. Siamo felicissimi di averlo qui con noi perché sostanzialmente, come gli dicevo prima, ha avuto due carriere: prima è stato all’interno della NBA e ora è un osservatore speciale dall’esterno, scrivendo articoli, registrando podcast, ecc.

Non per dire che sei vecchio, ma hai cominciato presto, quando hai cominciato avevo nove anni…

MD: Tutto ok, sono vecchio, non ti preoccupare.

(risata di gruppo)

AS: Hai cominciato come manager a Santa Monica College dal 1999 al 2005, correggimi se sbaglio, poi sei stato assistant e associate head coach a USC. Dopodiché hai fatto il salto e sei diventato video coordinator per i Los Angeles Clippers dal 2006 al 2009 e dal 2011 al 2014. Tra quelle due esperienze sei stato con i San Antonio Spurs, sempre come video coordinator. Hai avuto una parentesi con la Nazionale australiana alle Olimpiadi di Londra 2012 lavorando per coach Brett Brown con una squadra che, tra gli altri, aveva David Andersen, Patty Mills, Joe Ingles, Aron Baynes e Matthew Dellavedova. Dopo di quello, il secondo capitolo della tua carriera: prima hai fondato The Jump Ball, ora scrivi per Bleacher Report e registri podcast per The Athletic.

AB: È uno dei co-host in uno dei miei tre show preferiti del momento, Nerder She Wrote. Vai Mo, ritagliati pure un piccolo spazio pubblicitario e descrivici questo podcast, perché è fantastico.

MD: Nerder She Wrote è parte della “famiglia” di Back To Back. Di martedì c’è Basketball Buds, che parla comunque di basket ma è più leggero e divertente. Noi usciamo il giovedì e andiamo più in profondità: ci sono io, c’è Seth [Partnow], che lavorava con le analytics; anche se sono suo compagno di podcast e dovrei saperlo, non so precisamente che ruolo avesse…

AB: Penso che fosse addirittura a capo del dipartimento delle analytics per i Milwaukee Bucks, può essere?

MD: Sì, penso che ai Bucks fosse proprio a capo del reparto analytics. Poi c’è Dave DuFour, e tutti e tre parliamo approfonditamente di pallacanestro. Parliamo di statistiche, parliamo di ciò che vediamo, tutti e tre prendiamo spunto dalle nostre rispettive esperienze e ne parliamo. È molto divertente da fare, proviamo a fare qualche battuta qui e lì e a divertirci, però ci “tuffiamo” nell’argomento pallacanestro. Mi fa piacere sentire che siamo nella tua top 3.

AB: Siete nella mia top 3 insieme a The Lowe Post…

MD: The Lowe Post è nella top 3 di tutti.

AB: Il mio sogno è di avere un giorno Zach Lowe in questo podcast. Il mio terzo podcast preferito è Hollinger & Duncan, perché John Hollinger ne sa molto di statistiche.

Visto che stiamo parlando delle battute che fate durante il podcast, ho una domanda stupida: cosa succede con Seth e il suo gatto?

MD: (ride). Non lo so, tutto è cominciato quando ha cominciato a partecipare allo show più di frequente. Ha mandato una sua foto con dei tagli, come se il gatto l’avesse graffiato: a quel punto ho cominciato a sperare che succedesse mentre era alle prese con un discorso molto profondo sulle analytics, e nella mia testa mi immaginavo il gatto piombare su di lui come un leone, e lui che comincia a gridare.

AB: “Sì ecco, il Net Rating è una brutta metric… aaah”, e il gatto lo attacca. Sì, sarebbe anche il mio sogno.

AS: Se il gatto non concorda con il discorso, ha parecchi modi per esprimere il suo dissenso.

MD: A volte dico che dovremmo fare il podcast con il video, così da poter vedere questo.

AS: Fatelo! Io ho rinchiuso il mio gatto, che non è assolutamente aggressivo ma a volte spunta fuori. Per la prima volta nella storia del podcast ho rinchiuso il mio gatto, così non può dare fastidio. Spero che la mia ragazza non lo scopra.

MD: Probabilmente annunciarlo nel podcast non è l’idea migliore, se non vuoi che lo scopra.

AS: Sì, è vero, dopo taglio questa parte allora. Quindi, scavando un po’ di più nel tuo passato e nel bagaglio di esperienza che porti con te oggi: stavo controllando il tuo curriculum e ho visto che Nick Young è stato con te sia a Santa Monica sia a USC, è corretto?

MD: No, Nick Young non è mai stato a Santa Monica con me.

AS: Giusto, solo con USC.

MD: Sono stato con lui a USC, però non ero un assistente, ero solo un manager.

AS: Giusto, scusami.

MD: Niente di cui scusarsi, avrei dovuto starmene zitto, lasciare che tu dicessi che ero un assistente e prendermi il merito (ride). Nick Young era un freshman il mio ultimo anno con USC, e quando lavoravo per i Clippers scambiammo per lui. La cosa divertente è che avevo ancora il suo numero di telefono e gli scrissi “Benvenuto nella squadra, sarà divertente vederti ancora”. Siccome non pensavo che avesse il mio numero salvato, scrissi -Mo alla fine, così da fargli sapere che ero io: peccato che mi fossi completamente dimenticato che avevamo un altro Mo in squadra, Mo Williams. Nick rispose pensando che fosse Mo Williams che gli dava il benvenuto in squadra, e scrisse qualcosa come “Non vedo l’ora di giocare con voi”. Io pensai “Oh, man” e gli risposi “Nick, sono l’altro Mo, quello di USC. Sono con i Clippers ora” e lui mi disse “Oh, okay” e non mi scrisse mai più. Ovviamente poi vederlo di nuovo e avere avuto un passato comune è stato divertente, mi ha fatto piacere vederlo passare da essere un freshman a USC al farcela in NBA.

AS: La mia domanda era “Hai qualche aneddoto divertente?” e mi hai già risposto, perfetto.

AB: Un’altra storia che mi farebbe piacere sentire da te è su come tu sia stato assunto dai Clippers: è una lunga storia, no? C’è un “filo” lungo che ti connette ai Clippers attraverso Neil Olshey. Tutto è cominciato quando sei andato a un draft workout senza sapere che stessi effettivamente andando a un draft workout, giusto?

MD: Sì, è successo mentre ero junior a USC, dovevo ancora finire ‘università. Uno dei nostri senior doveva andare a questo workout, uno degli allenatori mi chiese se potessi dargli un passaggio in macchina e io gli risposi “No problem”. Lo porto a questo workout ed è qualcosa di pre-draft, non è nemmeno un allenamento completo, cercano solo di valutare questo giocatore. Perciò lo porto a questo workout e c’è un gruppo di ragazzi che si allenano e un gruppo di GM e coach NBA sugli spalti. Io ero il più giovane di tutti e avevo addosso una polo e dei pantaloncini; Neil Olshey si avvicina e mi chiede “Hey, puoi aiutare e fare un po’ di dummy defense?”. Lieto di farlo, faccio tutto quello che mi chiedono per tutto l’allenamento. Oltre a Neil c’era anche Tim Grgurich, un assistant coach importantissimo che io chiamo il “padrino del player development”. Dopo il workout mi avvicino a Neil e gli chiedo “Hey, posso tornare? Mi piacerebbe poterti aiutare”; lui mi risponde “Non posso pagarti” e io gli dico “No no, lo farò gratis”, lo consideravo parte della mia educazione cestistica. Neil mi lasciò andare e aiutarlo con tutti gli allenamenti, e io lavorai con lui per l’intera estate e anche dopo il draft. Poi c’erano Jason Kapono e Carlos Boozer che venivano ad allenarsi nella nostra palestra, e tutto ciò era grandioso. Dopo l’estate Neil viene promosso da assistant coach a director of player personnel, perciò decido di chiamarlo per fargli i complimenti. Lui risponde come se fosse nel mezzo di una riunione, tipo “Hey, ti richiamo dopo” e non mi chiama più, perciò io penso “Neil è un pezzo grosso ora, non lo voglio disturbare”: quello è un errore, è la prima lezione di “bad networking”.

AS: Penso che tu abbia dei problemi a comunicare via telefono: con Nick Young è successo lo stesso…

MD: (ride) Però Nick mi aveva scambiato per un’altra persona. La maggior parte delle persone crede che io abbia problemi a comunicare in generale, quello del telefono è un altro problema. In ogni caso finisco l’anno, mi laureo, e nel frattempo faccio il ball boy in preseason per i Lakers: quando cerchi di entrare in un determinato mondo, fai qualsiasi tipo di lavoro. Questo episodio non me lo dimenticherò mai: Baron Davis chiede dei chicken fingers, e altri due giocatori mi danno dei soldi perché vada a prendere del cibo anche a loro; tutto ciò prima della partita. Perciò ho le mani piene di questi chicken fingers caldissimi e sto correndo giù per le scale e vedo Neil, che mi ferma e mi chiede dove sono stato, cosa ho fatto e perché non l’abbia mai chiamato. Nel frattempo le mie mani si stavano ustionando, perché avevo qualcosa come quattro chicken fingers bollenti in mano. Neil mi dice “Guarda, potrei avere un posto per te, questo è il mio biglietto da visita, chiamami tra un mese”. Un mese dopo lo chiamo e lui mi assume come stagista per la video room: nei miei primi due anni mi concentravo principalmente sul personnel e sul draft, e quello è stato il mio ingresso nell’ambiente. Tutto ciò è nato per caso, quando mi sono imbattuto in Neil a una partita mentre tenevo in mano del cibo caldissimo.

AS: Questa è una storia incredibile sulle sliding door: se non fossi andato a prendere i chicken finger, non avresti avuto questa carriera.

MD: Non solo, se non avessi dovuto accompagnare il senior a quel workout probabilmente sarebbe stata una storia completamente diversa. Questo è parte della componente fortuna: quando la gente mi chiede come si faccia a entrare in quel mondo, io rispondo che bisogna anche essere un po’ fortunati, e con me è stato così.

AB: Devi essere fortunato per entrare, però poi per avere la carriera che hai avuto servono soprattutto le tue abilità.

MD: Esattamente. Ciò che ti fa rimanere in quel mondo è il lavoro duro e cose di questo genere. Così è come sono entrato in questo mondo, questa è la mia storia. Sono entrato per mezzo di Neil, e quando Doc Rivers mi lasciò andare dopo il suo primo anno, Neil era al telefono per conto mio, dicendo alle altre squadre “Se avete bisogno di qualcuno per i video, Mo è disponibile”. Ho dovuto chiamarlo per dirgli “Hey, non sto cercando di rientrare in quel mondo”, però ho apprezzato molto quello che stava facendo: non era suo dovere farlo, lui era già a Portland, eppure senza che io gli dicessi nulla era riuscito a farmi arrivare offerte da diverse franchigie. Io poi ho scelto di non accettarle e di non continuare per quella strada, però tutto ciò è stato merito di Neil e io gli sarò sempre grato per questo.

AS: È pazzesco, è come il discorso che il talento ti porta in NBA e il lavoro duro ti fa avere una carriera: la fortuna ti fa passare per quella porta, però dopo devi lavorare duro. Questo si applica sostanzialmente a qualsiasi aspetto professionale nella vita.

MD: Assolutamente.

AS: Personalmente sono abbastanza curioso della parte organizzativa delle squadre, di come sia la struttura. Tutti sanno che quei Clippers faticavano, poi le cose hanno cominciato a migliorare, poi è arrivata Lob City, ecc., e tutti sanno che gli Spurs sono stati sempre al top finora, conosciamo il lato cestistico delle cose. All’inizio dell’anno ho sentito che Grant Williams, il rookie di Boston, aveva fatto un regalo a tutti i componenti dell’organizzazione di Boston, dando una candela e ringraziando, ed è stato qualcosa di senza precedenti: queste “perle di conoscenza” riguardo l’organizzazione delle franchigie mi piacciono, hai mai avuto esempi simili? E quando hai cambiato franchigia, hai sentito che l’aria era diversa, hai percepito un modo di approcciare le cose diverso?

MD: Sì, al 100%. Sono passato da una versione terribile dei Clippers ai San Antonio Spurs, dove sono stato un paio di anni. Eravamo i favoriti entrambi gli anni, avevamo appena scambiato per Richard Jefferson e il suo primo anno coincideva con il mio primo anno. Immediatamente chiunque pensava che saremmo stati di nuovo in corsa per il titolo, anche se quell’anno non andò bene. Però comunque c’era una differenza di cultura: tutte le 30 squadre hanno una cultura diversa, come qualsiasi azienda ha dei modi di lavorare differenti. Tutti lavorano in modo diverso: alcuni vedono la squadra più come una famiglia, altri più come un’azienda, altri come un mix delle due cose, altri invece sono legati alla città in cui la franchigia ha sede; nessuna delle 30 squadre ha la stessa cultura. Chiunque prova a copiare gli Spurs, e secondo me è un problema: il “modello Spurs” funziona solo a San Antonio, così come il “modello Mavericks” funziona solo a Dallas; ci sono aspetti della cultura Spurs che puoi provare a imitare, però non puoi pensare di esportare tutta la loro cultura, perché ciò che funziona a San Antonio non funziona necessariamente anche a Los Angeles. Basti pensare alle distrazioni che ci sono a L.A., che è una città più grande, con più cose da fare (e questa non è una critica a San Antonio, anche se è una città abbastanza noiosa); a L.A. poi ci sono due squadre NBA, due squadre di calcio, due squadre di football americano, due università come UCLA e USC, due squadre di hockey, hai due squadre di tutto. Sei continuamente in competizione, e a questo devi aggiungere la vita notturna di L.A.: perciò ciò che funziona a San Antonio non funzionerà a L.A., e ciò che funziona a L.A. non funzionerà a Boston, e via dicendo. Tutti hanno culture e “vibes” diverse, perciò quando passi a un’altra squadra devi imparare come funziona la cultura di questa squadra. Una cosa divertente di quando sono tornato ai Clippers, dopo il lockout, le cose erano cambiate: c’erano aspetti della vecchia cultura e aspetti nuovi, perché il nuovo coach Vinny Del Negro stava cercando di instillare un po’ della sua cultura e di come voleva che le cose fossero fatte. Devi imparare lungo il percorso e cercare di capire come lavorare, perché ogni squadra ha una sua unica cultura e qualsiasi tentativo di imitazione è sostanzialmente destinato a fallire.

AS: Il discorso che hai cominciato, quello sul fatto che tutti cerchino di imitare gli Spurs, è stato il leitmotiv per lunghi periodi di tempo. Onestamente non mi aspettavo che fosse così profondamente connesso con la città in sé: ora che ci penso è logico, però qui Italia viviamo il basket in maniera diversa. Rimane uno sport amato, però è il terzo o quarto sport nazionale.

AB: Il secondo, è il secondo sport nazionale.

AS: Più del rugby?

AB: Sì, sicuramente. Dopo il calcio direi che c’è il basket.
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Tags: Mo DakhilThe ANDone Podcast
Daniele Sorato

Daniele Sorato

Tifoso suo malgrado dei Timberwolves e della Juventus, nel tempo libero studia Scienze Internazionali all’Università degli Studi di Milano, viaggia e colleziona dischi. Odia parlare di sé in terza persona e sicuramente non si guadagnerà da vivere scrivendo bio.

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