23 novembre, i Nuggets ospitano i Celtics. Kemba Walker si scontra fortuitamente con il compagno Semi Ojeleye, urtando violentemente la testa contro il petto di quest’ultimo. Il #8 biancoverde cade a terra e viene portato fuori dal campo in barella con il collo immobilizzato. La scena lascia col fiato sospeso tutto il mondo degli amanti della NBA, perché c’è l’impressione che Kemba possa essersi infortunato in modo gravissimo: per fortuna l’allarme rientra in breve, ma il giocatore viene iscritto immediatamente al cosiddetto concussion protocol.
Cos’è una concussion?
Bisogna fare degli excursus per spiegarlo a livello medico in modo chiaro. La concussion è, tradotta nella lingua nostrana, una commozione cerebrale. Il laureando alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti Nicola Iacobucci ci aiuta a comprendere cos’è e qual è l’impatto di questa condizione medica sul cervello: «La commozione cerebrale è una sindrome clinica caratterizzata da alterazioni dello stato di coscienza secondaria a un trauma cranico. Le principali cause di commozione cerebrale sono rappresentate da: incidenti stradali, cadute accidentali, infortuni sportivi. Il quadro neurologico comprende l’insorgenza improvvisa di disfunzioni neurologiche transitorie, quali amnesia, perdita di riflessi, confusione e difficoltà di concentrazione, arresto respiratorio temporaneo.
La patogenesi della commozione cerebrale non è ancora del tutto nota, ma si ritiene sia da attribuire ad una alterazione del sistema RAS (Reticular Activating System). RAS è un complesso di cellule nervose che contribuisce a controllare lo stato di veglia, regolare il senso di coscienza e consapevolezza. Durante il trauma cranico si verifica l’inattivazione dei neuroni che compongono il RAS, con successiva comparsa dei sintomi della commozione». Nelle maggiori leghe professionistiche americane il tema delle concussion è tra quelli centrali, e nella NBA il trattamento di questo infortunio non è da meno. La lega ha cominciato a regolamentare in modo ferreo questa questione il 12 dicembre 2011, data in cui è ufficialmente entrata in vigore la policy sul tema.
Le cinque fasi di trattamento
1. Valutazione. Se un giocatore presenta i sintomi o si ritiene che sia vittima di concussion viene immediatamente rimosso dal campo ed escluso dalla gara per essere sottoposto a controlli nell’immediato.
2. Valutazione sotto osservazione. Se viene ritenuto che il giocatore non abbia subito una concussion, viene comunque tenuto sotto osservazione dallo staff medico della squadra e in genere (ma non sempre) non può prendere parte a una partita nelle 24 ore successive alla prima diagnosi. Se viene invece ritenuto che l’abbia subita, è escluso al 100% dalla prossima gara e posto fuori dalle rotazioni a tempo indeterminato, oltre a essere tenuto sempre sotto osservazione dallo staff medico.
3. Stop. Il giocatore a cui viene diagnosticata non può prendere parte ai match fino a quando lo staff medico non ritiene che sia perfettamente in grado di giocare e guarito da ogni sintomo.
4. Recupero. Il giocatore a cui è stata diagnosticata una concussion deve seguire un preciso regime di attività mentale e fisica deciso dai medici. Le principali indicazioni sono quelle di limitare molto l’uso di apparecchi elettronici o videogiochi, non avere incontri con folle di persone ed evitare ogni incontro con la stampa, i media ed i fan fino a nuovo avviso.
5. Nulla osta ufficiale. I medici contattano il direttore dell’NBA concussion program, carica che dal 2019 appartiene al dottor Jeffrey Kutcher, e lo informano della situazione. Dopodiché vengono stabiliti i tempi per l’uscita dell’atleta dal protocollo sulle commozioni cerebrali, in base agli esami e alla situazione. Ci sono anche altre varie fasi riguardanti il rientro, che si articolano in ritorno all’attività fisica evitando il basket, attività senza contatto con i compagni, jogging ed esercizi di agilità. Se i sintomi non spariscono, l’attività continua ad essere limitata fino alla guarigione totale. Infine, la decisione sul ritorno in campo viene presa di comune accordo col dottor Kutcher, che obbligatoriamente deve dare il suo assenso. Qui potete trovare il documento ufficiale stilato dalla NBA per la stagione 2019/20.
Gli studi di Omalu sulla CTE e le conseguenze
Come visto, in NBA c’è una cura estrema riguardo questo tema, e la pallacanestro è uno sport in cui i colpi alla testa possono avvenire ma per fortuna sono sporadici e dovuti principalmente a contatti fortuiti. Questo livello di attenzione da parte della lega è dettato dalla risonanza che le commozioni cerebrali hanno avuto tra i media americani a seguito di vari scandali legati sopratutto alla NFL. Nel 2015 Will Smith ha interpretato sul grande schermo colui che nella realtà ha scoperchiato il vaso di Pandora riguardante le concussion nel football, il dottor Bennet Omalu.
Nel 2002 il dottor Omalu si trovò a eseguire un’autopsia sul corpo di Mike Webster, ex centro dei Pittsburgh Steelers in NFL. Webster si ritirò nel 1990, ma il fatto che ci fosse qualcosa che non andava in lui era chiarissimo anche prima dell’addio. Soffrì di atroci dolori alle ossa, ai muscoli, di una forma di demenza, di amnesie gravissime e depressione. All’atto di eseguire l’autopsia, Omalu trovò il cervello di Webster in condizioni del tutto devastate: fu il primo passo per scoprire la CTE, in italiano Encefalopatia traumatica cronica.

Gli studi di Omalu vennero del tutto ignorati dalla NFL per sette anni, e lo stesso medico venne deriso e considerato come un pazzo che voleva mettere in pericolo la lega. La MTBI, la commissione attiva nella lega di football per la valutazione delle condizioni di testa e spina dorsale, giudicò gli studi di Omalu come “pieni di errori” e “del tutto sbagliati”. Omalu fece altre autopsie eseguite su ex giocatori di football, ma trovò sempre l’ostracismo della NFL, finché nel 2009 riuscì a pubblicare i suoi studi sulla rivista GQ in un articolo che (per usare un eufemismo) fece molto scalpore. Da quel momento in poi la NFL fu costretta a cambiare linea. Le idee di Omalu, che aveva accusato la lega di pensare solo ai soldi e non alla salute degli atleti, furono accolte e approfondite in tutte le maggiori testate giornalistiche del paese.
In seguito la CTE venne diagnosticata a molti ex wrestler ed ex giocatori di football, diventando quindi una malattia ufficialmente riconosciuta. Il fatto che la NBA abbia provveduto in soli due anni ad emettere un regolamento veramente severo su questa condizione non può essere un caso, e dal 2011 ad oggi in NBA sono stati segnalati circa 17 casi l’anno di giocatori sottoposti al concussion protocol.
Ovviamente nel basket si tratta di contatti molto spesso non pesanti, a differenza del football, dove in ogni partita ogni singolo giocatore subisce centinaia di microtraumi al cranio dovuti alla natura fisica dello sport in questione. Oggettivamente è molto difficile che un giocatore di basket riscontri una condizione cerebrale grave come la CTE, tuttavia è giusto non sottovalutare nemmeno per un attimo i colpi alla testa, e l’aver promulgato una policy ufficiale è un grande segnale da parte della lega guidata da Adam Silver. Ironicamente c’è stato un giocatore che ha verificato sulla propria pelle quanto la NBA sia irremovibile sul tema concussion. Il soggetto in questione è Tacko Fall, gigantesco centro dei Boston Celtics entrato nel protocollo di controllo dopo aver urtato la testa contro il soffitto di un bagno evidentemente troppo basso per lui.
Indiscutibilmente il tema trattato in questo articolo è molto complesso. La stessa CTE definita medicalmente da Omalu è una malattia che è ancora in fase di studio e approfondimento da grandissimi esperti del settore. Quanto scoperto dagli studi del luminare nigeriano è che i ripetuti traumi portano a un accumulo della cosiddetta proteina tau, che fa degenerare le condizioni del cervello. Nel caso di Terry Long, un altro ex giocatore di football, questa proteina era accumulata in quantità tali da far sembrare il suo cervello quello di “un novantenne con l’Alzheimer in stato avanzato”. L’impatto delle ricerche su questo argomento è stato colossale non solo a livello di medicina sportiva, e sta portando enormi risultati anche nella cura di non-atleti. La risonanza mediatica negli Stati Uniti è stata mostruosa, e ha innalzato chi ha dedicato anni della propria vita alla condizione che esso merita: quella di un luminare che lavora per il bene si degli atleti, ma anche di persone comuni affette da questa malattia sperando un giorno di trovare una cura adeguata.