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50 anni di Reign Man

Davide Torelli by Davide Torelli
27 Novembre, 2019
Reading Time: 12 mins read
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Se dovessimo definire il momento spartiacque nella carriera di Shawn Kemp, sarebbe sicuramente la partita del 2 Febbraio 1997, alla Key Arena di Seattle.
Dopo un passivo di 4 a 2 subito nelle Finals del 1996, i Seattle Supersonics ospitano per la prima volta i Chicago Bulls di Michael Jordan, tornati campioni del mondo.
È l’ottava stagione da professionista per l’uomo chiamato Reign Man, la sua ultima nella “città di smeraldo”, prima di venir scambiato proseguendo verso il declino per altre sei stagioni.

Non contano i numeri registrati durante l’esperienza con i Cavaliers, più in linea con il suo passato che con la triste conclusione della sua epopea atletica: Kemp stava cadendo in un vortice tanto profondo quanto inevitabile, destinato a toccar il fondo dapprima a Portland e poi ad Orlando, apparendo letteralmente sfigurato.
Neanche il possessore della più fervida immaginazione avrebbe potuto riconoscere quel giocatore appesantito – che resisterà un anno accanto a Tracy McGrady prima di gettar la spugna – rispetto all’esaltante uomo volante divenuto un simbolo per gran parte dei nineties.

E questo perché – come in tutti i film dove il lieto fine non arriva, straziati da un evento centrale che cambia il ritmo della storia –  nella vita di Shawn Kemp c’è un “prima” ed un “dopo”, dove tutto ruota attorno a quella gara di metà stagione davanti al pubblico di Seattle, quello per cui rappresenta il beniamino assoluto. Il Manchild che hanno visto crescere, ergersi e condurre la città ad un passo da un’impresa che significa Titolo NBA: continuare a riporre fiducia in lui significa cullare il sogno ancora un poco, prima del fastidioso suono metallico della sveglia.

Jordan segna 45 punti in quell’attesissima partita, e Chicago conclude il primo quarto conducendo per 27 a 15, sostanzialmente amministrando i restanti tre. Lo fa senza Rodman, con Pippen e Kukoc in serata negativa, con il solo sforzo del suo giocatore più rappresentativo, quello che tutti già definiscono il più forte di sempre.
Il segnale è pessimo per i Sonics: se speravano in un ritorno in finale con esito diverso, la prima prova era decisamente fallita, e la faccenda più inquietante riguardava proprio il simbolo della franchigia con il numero 40 sulla maglia. Quello che aveva concluso l’ultima edizione delle Finals con prestazioni da assoluta consacrazione, adesso in pesante regressione di rendimento.

Non erano tanto le statistiche a preoccupare – in quella gara del 2 Febbraio, Kemp chiude con 16 punti, 8 rimbalzi e 5 su 11 dal campo, non benissimo ma neanche disastroso – quanto l’approccio al campo, i segnali di assenza dal gioco, l’atteggiamento registrato fino ad allora.
Qualcosa non funzionava, c’erano già stati rumors di contrasti con la dirigenza ed un training camp saltato, ma quel declino fisico e mentale non poteva esser liquidato con un semplice capriccio a giustificazione.

Pare che la sera prima della partita Kemp fosse stato visto prosciugare diversi bar cittadini, con una foga invidiabile rispetto a quella che metteva sul parquet, finendo la nottata chissà dove, chissà quando, chissà con chi. Forse, semplicemente solo con i suoi problemi.
La notizia chiaramente esce, lo spogliatoio fa quadrato attorno a lui, “Reign Man” negherà di avere un problema e proverà a condurre Seattle nuovamente sulla vetta della Western Conference, arrendendosi ai Rockets dopo 7 partite in Semifinale di Conference.

A partire da quel giorno il sogno dei Sonics finisce, la carriera di Kemp vira violentemente, e niente sarà  più come prima.

Da Elkhart a Seattle

Come gran parte delle storie dei giocatori who made it l’infanzia di Shawn Kemp è caratterizzata da un padre assente, una madre che sostiene più lavori per far mangiare i due figli, una sorella che da piccola lo sconfigge al campetto, ed un problema alle gambe che lo rende un bambino sgraziato.
Poi, ad un certo punto cresce in maniera smisurata, diviene una promessa per lo stato dell’Indiana, e con la Concord High School di Elkhart (la sua città natale) raggiunge uno status invidiabile.

Al McDonald’s All American del 1988 mette in luce tutte le sue capacità, dimostrando un talento grezzo coadiuvato da mezzi atletici stupefacenti, in un corpo longilineo da 208 centimetri di altezza: in quel momento ha già snobbato le attenzioni di Bobby Knight ed Indiana, firmando una lettera di intenti per Kentucky.

Tutto sembra pronto per una carriera di alto livello nel College Basketball, ma Shawn non raggiunge il punteggio minimo nei test per l’ammissione universitaria, sbarcando comunque in un College appena finito sotto inchiesta per uno scandalo sul reclutamento illegale, e venendo pizzicato dalla polizia di Lexington a cercar di vendere delle catenine d’oro rubate al figlio del coach dei Wildcats, Eddie Sutton.
Lui si dichiara innocente ma contemporaneamente fugge via, per ritirarsi nella desolazione texana del Trinity Valley Junior College di Athens, dove non ci sono test attitudinali da passare – in cui non gioca neanche mezza partita – prima di dichiararsi eleggibile per il Draft NBA, praticamente senza aver  mai calcato un parquet universitario.

Shawn Kemp passa da essere sicura promessa a scommessa di Seattle, che lo seleziona con la chiamata numero 17 del 1989: approda in una squadra guidata da coach Bernie Bickerstaff, che appare un’accozzaglia poco armonica di buoni giocatori, dove spiccano Dale Ellis e Xavier McDaniel.
Sarà proprio quest’ultimo – già rinomato per quella fama di duro che ne caratterizzerà la carriera – a prendere sotto la propria ala il ventenne di belle speranze, già in grado di impressionare con schiacciate stratosferiche, ma sul quale c’è tantissimo da lavorare anche caratterialmente.

Seattle fallisce l’approdo ai playoffs, ottenendo la scelta #2 dalla Lottery e selezionando il playmaker Gary Payton  – talentuosa testa calda da Oregon State – che appare da subito l’ideale partner in crime per il non ancora Reign Man, che inizia così la sua scalata verso i vertici della lega:

Per i primi sette anni di carriera, le sue statistiche in materia di punti e rimbalzi cresceranno di anno in anno, affinando le doti tecniche in parallelo con l’intesa con quel playmakerino capace di lanciarlo in roboanti alley-oop, trasformandolo nell’ideale giocatore da highlights promozionali per la lega. 
In panchina arriva George Karl, dai Pacers un già Sesto Uomo dell’Anno come Detflef Schrempf, e con una squadra giovane e frizzante, i Sonics arrivano ad un passo dalle Finals del 1993, sconfitti in gara 7 dai Suns di un Charles Barkley onnipotente, nella sua migliore stagione di sempre. 

Seattle sembra la squadra del destino e Kemp ne è condottiero in campo, decisivo anche nella metà campo difensiva secondo una mentalità inserita da coach Karl, fatta di pressione sulla palla e raddoppi, di rotazioni e difesa del ferro: un qualcosa possibile solo avendo a disposizione talenti naturali come Kemp e Payton, e riempiendo il contorno di specialisti adatti al compito.

Seattle giunge alla post season del 1994 (in una lega orfana di Jordan) con il miglior record della NBA, favoritissima per il raggiungimento dell’atto conclusivo, con un gioco spettacolare basato su ripartenze difensive e contropiede, con Kemp assoluto dominatore dei tabelloni. Al primo turno incontrano i Denver Nuggets di Dikembe Mutombo, e dopo essere andati avanti sul due a zero nella serie, perdono tre gare consecutive, venendo così clamorosamente eliminati.
Shawn viene annientato in tutti i sensi dal centro africano, e le sue capacità vengono messe pesantemente in dubbio. Addirittura si parla di una trade quasi conclusa tra i Sonics ed i Bulls, con l’approdo di Pippen nello stato di Washington: i tifosi si oppongono, e non se ne fa di niente.

Ma la stagione seguente il copione resta il medesimo, con l’uscita al primo turno per mano dei Los Angeles Lakers: una doccia freddissima che appare come sonora “pietra sopra” al presunto buon progetto di Seattle, che decide però di non rifondare, di provarci per ancora un anno, completando il roster con tasselli importanti.
È così che nel campionato 1995/96 Kemp giocherà la miglior stagione in carriera, combattendo con Karl Malone per il titolo metaforico di miglior power foward della lega, sconfiggendolo nello scontro diretto in Finale di Conference per raggiungere l’agognato ultimo step prima del titolo NBA, incrociando però i Chicago Bulls di un Jordan in missione, determinato a tornare sul tetto del mondo dopo esser rientrato nella lega.

Nelle Finals del 1996 Kemp gioca da leader assoluto, non facendosi intimorire nelle prime due gare esterne (comunque entrambe perse dai Sonics), e guidando una improbabile rimonta dopo esser usciti sconfitti da gara tre, con due vittorie consecutive alla Key Arena prima di arrendersi in gara sei allo United Center.
Nonostante l’amarezza, la prestazione di Reign Man (il soprannome affibbiatogli dallo storico radiocronista dei Sonics Kevin Calabro, oggi a seguito delle gare dei Portland Trail Blazers visto che Seattle non ha più una squadra NBA) stupisce un po’ tutti, anche perché si registra contro un difensore come Dennis Rodman, il ché può decisamente far ben sperare per l’anno a venire.

Se Seattle riuscisse ad aggiungere un buon centro da rotazione al roster, il ritorno in Finale non sarebbe così impossibile, soprattutto con un anno di esperienza in più per il suo dynamic duo.

“L’avaro per il poco, perde il molto”

Ed il centrone arriva sotto forma di Jim McIlvaine, un ragazzo da due punti, tre rimbalzi e due stoppate per gara nel suo secondo anno ai Washington Bullets da riserva.
Il presunto intimidatore da Marquette riesce a strappare un “contrattone” da 35 milioni di dollari in sette anni, facendo imbestialire il buon Shawn, che decide di non presentarsi al training camp per protesta.  

La stagione è la prima in cui Reign Man si blocca nella crescita statistica fatta registrare fino ad allora, e culmina con una rottura totale con dirigenza e città attraverso la richiesta di essere ceduto, indispettito dall’essere soltanto il settimo giocatore più pagato di squadra.

Insomma, è una questione di soldi.

Tra l’altro Shawn non avrebbe nessun diritto formale di agire nella direzione praticata, avendo firmato un’estensione settennale del contratto nel 1993 per 25.4 milioni di dollari, e dopo aver addirittura scioperato per tre giorni nel 1994 con l’obiettivo di ottenere una proroga fino al 2002, dove avrebbe ottenuto un pagamento una tantum di 14,6 milioni.

Secondo le regole del contratto collettivo in vigore in quegli anni, Kemp non poteva ottenere una rinegoziazione prima di tre anni dalla firma, e per questo la sua protesta non aveva alcun senso considerando che né i Sonics, né chiunque altro avrebbe mai potuto offrirgli una cifra pari al suo valore in quel momento.
Saranno quindi i Cavaliers a mettere mano al portafogli, accordandosi per un clamoroso investimento da 107 milioni di dollari in sette anni, un qualcosa che il giocatore non sarà decisamente in grado di onorare, favorendo probabilmente il suo declino irreversibile.

Si, perché se le voci di alcolismo risultano inizialmente infondate, diviene cosa certa la paternità di ben sette figli da sei donne differenti – nessuna delle quali ovviamente sposate – tutti da mantenere.

Probabilmente una pressione finanziaria simile stava alla base dei suoi malumori, di una depressione troppo presto additata come dipendenza, e Cleveland  decide di puntare sul suo nome per rifondare la franchigia, ritrovandolo però notevolmente fuori forma di rientro dal lockout al suo secondo anno in Ohio.
Malgrado i 138 kg di grasso con cui si presenta, l’allora ventinovenne Kemp conclude la stagione con il suo massimo in carriera per punti (20.5 per gara), ma dimostra una dimensione di gioco decisamente diversa da quella che lo aveva reso ammirato dal pubblico.

Il “nuovo” Kemp quasi non salta, accontentandosi di tiri dal mid range o di spallate sotto canestro, perdendo vigore a rimbalzo ed in difesa, ma soprattutto limitandosi notevolmente nella precisione dal campo.
È proprio guardando alle sue percentuali di tiro che possiamo comprendere quanto il gioco di Reign Man abbia perso efficacia, passando dall’apice del 56,1% della stagione 1995/96 al 41,7% della sua ultima annata ai Cavaliers, quella del 1999/00 prima di passare a Portland.

Saranno i senatori Steve Smith e Scottie Pippen ad accorgersi del disagio psicologico di Shawn, che passa una stagione disastrosa nell’Oregon in uno stato di visibile difficoltà, dove i problemi di dipendenza da droghe ed alcool non sono più occultabili. Lo convincono ad andare in rehab, più per salvarsi la vita che per recuperare la sua forma, ed infatti quello che succede dopo – con un’altra stagione nei “Jailblazers” ed il conseguente approdo ad Orlando – decreterà la conclusione della sua carriera.

Proverà più volte a tornare, riuscendo quasi a convincere Avery Johnson ed i Dallas Mavericks a dargli una ultima possibilità, ma fallirà sempre l’appuntamento decisivo, collezionando altri arresti per possesso illegale di droghe o armi da fuoco.
Addirittura a 39 anni suonati si presenta anche in Italia, a Montegranaro, per scorrazzare sul campo in un paio di amichevoli prestagionali, prima di tornare nuovamente a casa, dove era giunto il tempo di ricostruire la sua vita, abbandonando definitivamente lo sport che lo aveva reso celebre nel mondo.  

Il primo mezzo secolo di Reign Man

Ieri – 26 Novembre 2019 – Shawn Kemp ha superato la soglia dei 50 anni di vita.

Lo ha fatto dopo essersi definitivamente riappacificato con la città di Seattle, nella quale ha provato ad aprire qualche attività imprenditoriale, spendendosi in prima persona per il ritorno dei Sonics nell’NBA. Cosa che appare ancora un miraggio.
Gli highlights delle sue schiacciate  – o di certe stoppate “pallavolistiche” – appaiono immortali, tanto da renderlo uno dei giocatori di culto rispetto alla decade degli anni 90, pur non avendo mai vinto niente, e nonostante abbia passato la seconda metà della carriera ad annullare quanto di buono costruito nei primi sette anni nella lega.

Nonostante questo però, ricordarlo come uno dei migliori schiacciatori in partita di sempre è indubbiamente limitante per colui che appariva come the power forward of the future, quantomeno nei suoi anni migliori.
The Reign Man non è stato un semplice what if, ma un uomo che non è mai riuscito a scollarsi di dosso le sue debolezze, probabilmente prerogativa per una carriera che non lo ha mai visto dalla parte dei vincenti, neanche nei copiosi Dunk Contest ai quali ha partecipato.

Chissà, forse sarebbero stati sufficienti un paio di anni di formazione universitaria per donare al mondo un Kemp più sicuro, più leader di quello che non è mai riuscito ad esser considerato una superstar dai colleghi in primis. Eppure Kemp era un autentico maestro in post basso, nel rollare rapidamente a canestro dopo aver bloccato per il Gary Payton di turno, magari concludendo raccogliendo passaggi destinati al fuoricampo. 

Nell’evoluzione dei suoi primi sette anni, era riuscito a costruirsi un tiro affidabilissimo dai sei metri, e la sensazione era che quella gittata avrebbe finito per ampliarsi, rendendolo difficilmente marcabile. Tutto questo senza considerare la sua propensione per il lavoro sporco, le lotte a rimbalzo, i raddoppi difensivi e la protezione del ferro.

Avrebbe potuto restare a Seattle, provando a conquistare quel titolo che gli mancava, idolatrato da una città che ancora gli dedica ovazioni entusiaste nelle sue sporadiche apparizioni pubbliche. Nonostante tutto quello che ha sprecato, il nome di Shawn Kemp resta scolpito tra i più conosciuti di un decennio indimenticabile, pur non essendo finito tra gli Hall of Famer, probabilmente per la sua indole autodistruttiva.

Un po’ come quando partecipò con la nazionale statunitense ai Mondiali di Toronto ’94, stella della squadra a fianco di Shaq e Reggie Miller, e non trovò nient’altro di meglio da fare che afferrarsi i genitali come esultanza, dopo una clamorosa schiacciata. Un gesto tanto inutile quanto deprecabile, che gli valse l’esclusione dalla spedizione olimpica del ’96. Dimostrazione perfetta di una incapacità nel capire quando esagerare e quando no, quando provocare e quando restare nei binari.
Eccessivamente istintivo – sul campo da gioco come nella vita – fidandosi di una percezione del rischio evidentemente poco sviluppata, capace di danneggiarlo a lungo termine.

Tags: Gary PaytonMichael JordanReign Man
Davide Torelli

Davide Torelli

Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.

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