A meno di una totale assenza da qualsivoglia social network, se siete appassionati di pallacanestro è sostanzialmente impossibile che in queste prime settimane di Regular Season NBA non abbiate letto nemmeno una volta una frase simile a “Luka Doncic in formato MVP”. Il giovane prodigio sloveno, dopo aver già stupito nella sua stagione d’esordio, ha iniziato il suo secondo anno decisamente con il piede sull’acceleratore. Le sue raw stats si commentano praticamente da sole: 28.3 punti, 10.3 rimbalzi e 9.1 assist di media, con quattro triple doppie in dieci partite. Numeri del genere, uniti a prestazioni che hanno immediatamente colpito per eleganza ed efficacia, hanno portato moltissimi tra tifosi ed addetti ai lavori ad includere “Wonder Boy” nella cosiddetta MVP Ladder. Posto il fatto che si parla ovviamente di una decina di partite, e dunque di un campione ancora molto ridotto, è una decisione legittima?
Partiamo innanzitutto dai freddi ma indispensabili numeri. Le già citate statistiche di base sono sicuramente cifre mai viste, se non tra i grandissimi del Gioco, per un ragazzo di 20 anni, ma esse non tengono conto né del contesto in cui vengono prodotte né della effettiva influenza sul successo della squadra. Scavando un po’ più in profondità nelle advanced stats si trova innanzitutto un 29.8 di Player Efficiency Rating (quarto nella Lega). È un dato in netto miglioramento rispetto al 19.6 dell’anno scorso, e unito al 10 di Offensive Box Plus-Minus (secondo assoluto dietro a Lillard) testimonia l’ingresso di Luka nell’élite NBA della metà campo offensiva.
Lo sloveno è, infatti, in grado di creare ad uno standard altissimo occasioni non solo per sé stesso ma anche per i compagni: è terzo assoluto nella Box Creation, una statistica avanzata creata dal popolare analista Ben Taylor che misura la capacità di creare tiri aperti per i compagni. Qui sotto, una delle sue specialità: difesa che collassa su di lui, testa rivolta verso il tiratore e passaggio al lungo (persino Jackson è sorpreso di non ricevere):
Rimane comunque importante sottolineare come questi numeri siano anche figli dell’assoluta centralità di Doncic all’interno del gioco offensivo dei Mavericks: il dato sullo Usage (33.1%, settimo assoluto) ben testimonia come ogni singolo attacco di Dallas inizi, e spesso si concluda, con la palla nelle sue mani. L’attacco di coach Rick Carlisle viene spesso considerato come corale, ricco di handoff e blocchi lontani dalla palla: ciononostante, Doncic gioca in media oltre 10 possessi a partita come portatore di palla nel pick and roll (è nella top ten dei giocatori che utilizzano di più questa giocata). La varietà dell’arsenale offensivo dell’ex Real Madrid è un incubo per i difensori avversari, che ad ogni sua minima esitazione sono preoccupati per un eventuale stepback e spesso rimangono nella cosiddetta “terra di nessuno” tra palleggiatore e bloccante:
Vi invito a notare, in entrambe le clip, l’utilizzo da parte dei Mavericks di un secondo bloccante, che spesso accenna solo il movimento per poi uscire sul perimetro. In entrambi i casi Doncic sceglie di servire il suo lungo sotto canestro per due punti facili, ma avrebbe anche potuto optare per un scarico sul perimetro ad un tiratore smarcato. La sua pericolosità palla in mano ha, infatti, creato tre potenziali occasioni: un pull-up jumper per sé stesso, un assist al suo lungo e uno scarico al suo tiratore.
Non essendo un giocatore particolarmente rapido, Luka sfrutta i blocchi con un ritmo anomalo, rallentando spesso i suoi passi per cercare di trarre in inganno il difensore, che rischia di commettere fallo o semplicemente di andare fuori tempo, con Boban Marjanovic, o chi per lui, che ringrazia:
Come sempre, però, non è tutto oro quel che luccica. Il limite principale, che già era emerso lo scorso anno, rimangono le palle perse: 4.5 di media a partita (solo Harden, Young e Westbrook fanno peggio). Inevitabilmente, condurre un così alto numero di attacchi porta ad un innalzamento del numero di passaggi non completati: qui sotto, Luka si getta un po’ a testa bassa contro la difesa di New York per poi cercare una linea di passaggio inesistente:
Da sottolineare c’è anche qualche forzatura, talvolta nei minuti finali. Chiariamoci, non è nulla di irrisolvibile per un ragazzo che ha appena iniziato la sua seconda stagione in NBA, ma un miglioramento nella sua selezione di tiro sarà essenziale se vorrà entrare stabilmente nell’olimpo nei prossimi anni. La testimonianza di quanto Doncic tenda talvolta a piacersi un po’ troppo e a fidarsi eccessivamente del suo stepback ce la fornisce la partita con i Knicks: sotto di tre punti, palla in mano e con più di venti secondi a disposizione una scelta di tiro del genere è semplicemente inaccettabile.
In conclusione, il talento offensivo del “Niño Maravilla” è purissimo, difficile da trovare anche tra i migliori al mondo: a parer mio, la necessità più impellente è rimuovere poco a poco tutti quegli orpelli non necessari dal suo gioco, dove l’eleganza non va confusa con l’eccessiva sfarzosità. Sarebbe impensabile aspettarsi un miglioramento esponenziale di anno in anno, quando spesso a fare la differenza sono i dettagli ed il perfezionamento delle skills.
E la difesa? Doncic è sempre stato considerato un anello debole nella sua metà campo, fin dai report scritti al momento del suo Draft. Dalla sua ha una discreta struttura fisica e quell’intelligenza cestistica sopraffina che lo aiuta su entrambi i lati, ma ha scarsa mobilità laterale: è spesso distratto quando il suo uomo è senza palla e in generale sembra mancare in buona parte di istinti difensivi. Caratteristiche che sembrano presupporgli un futuro da difensore dell’ala avversaria, preferibilmente se di nome non fa Kawhi, piuttosto che di una delle due guardie. Considerando che in attacco sembra invece dilettarsi discretamente da playmaker o presunto tale, starà a Rick Carlisle trovare le giuste combinazioni di quintetti.
Riassumendo: è dunque blasfemo utilizzare Doncic e Most Valuable Player nella stessa frase? La risposta è negativa se si considera quanto ridotto sia il campione preso in esame: è chiaro che fare previsioni a metà novembre su un premio riferito all’intera stagione non è pensabile in alcun modo, ma è assolutamente legittimo considerare lo sloveno tra i migliori interpreti di questa prima manciata di partite.
Nonostante un’ottima prima annata sembra esserci stato un salto di qualità lampante durante l’estate, con anche un leggero miglioramento della prestanza fisica. La pericolosità offensiva messa in mostra è sicuramente degna dei migliori al mondo: range di tiro ancora più ampio, grande fantasia nelle conclusioni al ferro, visione di gioco a 360 gradi e la sensazione di poter generare due o tre punti per sè o per i compagni ad ogni singolo possesso. Al momento della stesura dell’articolo, infatti, i Dallas Mavericks sono, Offensive Rating alla mano, il miglior attacco dell’intera NBA, e credo sappiate a chi si debba citofonare per i complimenti. Sarà giusto qualche voto a suo favore da parte dei 100 giornalisti? Abbiamo altre 72 partite per darci una risposta…