Con l’avvio della stagione 74 per la National Basketball Association, le analisi sullo stato di popolarità della lega si sprecano, in relazione a un entusiasmo crescente (malgrado gli strascichi del Morey-gate). Nonostante ciò, non è sempre stato così, e decisamente non lo era 35 anni fa. Negli ultimi tre decenni, la NBA è divenuta un contenitore in cui convivono storie che superano il gesto atletico creando cultura popolare, con protagonisti iconici che lanciano mode, venerati come star hollywoodiane. La figura alla quale dobbiamo di tutto questo – anche a distanza di cinque anni dalla sua dipartita come commissioner a favore dell’alfiere Adam Silver – è quella di David Stern, deus ex machina nello sviluppo di un sistema che muove cifre astronomiche.
Un processo sviluppatosi nel trentennio che lo ha visto trasformare “una lega degradata” nello scintillante prodotto che appassiona e coinvolge un numero in aumento di appassionati del gioco, sparsi in tutto il globo. O almeno questo è ciò che racconta la narrazione che ne riassume le gesta, quella che racconta di partite di Finals trasmesse in differita, di giocatori più dediti alla bella vita che al sacrificio, di un limitato numero di personaggi a svantaggio delle franchigie concorrenti per quello che oggi si chiama Larry O’Brien Trophy (una dicitura introdotta da Stern in onore del suo predecessore). Tutto questo prima del suo avvento.
Una storia che letteralmente mitizza le scelte e le modifiche pensate dall’allora plenipotenziario della lega, ma che non tiene conto di una serie di fattori che il destino sembra aver preservato per l’avvocato nato a New York nel 1942, tanto da render lecita la domanda rispetto a quanto David Joel Stern sia stato effettivamente un visionario illuminato, oppure una persona capace di assecondare la buona sorte.
The greatest commissioner in the history of sports
Che l’apporto di Stern – attraverso una serie di visioni e una componente piuttosto pragmatica a livello di mercato – sia stato rivoluzionario, è indiscutibile. Così come lo è il contrasto tra chi valuta la sua “operazione popolarità” improduttiva per l’essenza del gioco stesso e chiunque lo definisca un “genio”.
Il trentennio di David Stern è caratterizzato da espansioni e relocation delle franchigie non tutte andate a buon fine, con l’apertura al Canada che ha determinato il fallimento di Vancouver prima e il successo di Toronto oggi (con i Raptors addirittura freschi vincitori dell’anello). Anche l’intuizione della Development League ha decisamente dato i suoi frutti, così come le modifiche al regolamento con l’obiettivo di spettacolarizzare il gioco, pur limitate dall’estremo numero di partite previste in regular season. Un qualcosa di immodificabile, probabilmente, considerando i diritti televisivi e la necessità dei grandi network di vendere un prodotto appetibile tutti i giorni, in grandissima quantità.
Del resto, se la programmazione televisiva attorno al gioco ha raggiunto livelli impensabili durante la sua era da líder máximo lo dobbiamo soprattutto ad una capacità (talvolta ruffiana) di condurre i negoziati economici, convinto che lo sviluppo in termini di marketing – e quindi di popolarità del prodotto – passasse decisamente dalla trasmissione dello stesso. Con la nascita di nba.com prima e del League Pass dopo, il cerchio appare definitivamente chiuso , con una copertura totale, globale, continua e copiosa. Talvolta a scapito della qualità effettiva del gioco stesso.
In contemporanea a tutto questo, da manovratore più o meno occulto del “progetto” Dream Team di Barcellona ’92, Stern ha aperto definitivamente la lega al resto del globo, accogliendo al suo interno i migliori giocatori extra-statunitensi esistenti, espandendosi così verso nuovi mercati e favorendo progetti di scouting capaci di condurre sul tetto del mondo giocatori come Pascal Siakam, freschissimo reduce da un rinnovo contrattuale importante con l’anello di campione al dito.
Tutto questo ha però restituito una immagine talvolta troppo patinata della NBA e del suo star system, salvaguardato da regole “puritane” come quelle anti-combattimento del 1993, o come le imposizioni di certo dress code “elegante” per gli inattivi in panchina. Tanto da inserire progressivamente l’immagine di un commissioner ossessionato dal controllo, capace – secondo certe teorie della cospirazione – di truccare la prima Draft Lottery da lui inserita a vantaggio dei New York Knicks, o di suggerire poco gentilmente il primo ritiro di Jordan, a causa dei suoi problemi con le scommesse.
Nonostante gli abbandoni fisiologici, i cambi generazionali e gli imprevisti da gestire (lockout inclusi), David Stern è comunque riuscito sempre a salvare lo show che aveva creato, lasciando al suo delfino Silver quella lega in salute e piena di motivi di interesse che ben conosciamo. Il punto da analizzare è un altro però, e lo abbiamo già anticipato all’inizio: il signor Stern è stato un visionario geniale oppure un fortunato avventore giunto nel posto giusto al momento giusto?
In the right place, at the right time
David Stern succede a “quello che dà il nome al trofeo di campioni” nel febbraio del 1984, prendendosi quella lega tanto vituperata ma che nel frattempo aveva già conosciuto due atleti capaci di accendere entusiasmi e fantasie dei tifosi: Larry Bird e Magic Johnson.
Per l’esattezza, quando Stern prende il timone di una barca comunque in via di galleggiamento, quei due giocatori così agli antipodi si scontrano per la prima volta alle Finals. Non esattamente malaccio, per consolidare una rivalità su cui la NBA avrebbe letteralmente marciato negli anni a seguire. Ma non è finita, perché in occasione del suo primo Draft da commissioner, il signor Stern ha il privilegio di chiamare sul palco una serie di nomi come Hakeem Olajuwon, John Stockton, Charles Barkley e – last but not least – Michael Jordan. E scusate se è poco.
Diciamo che se esisteva un momento giusto in cui prendere in mano le operazioni, quello era sicuramente il Febbraio del 1984. Con Jordan poi, Stern vince letteralmente alla lotteria, considerando la qualità e la quantità dello spettacolo proposto fin da subito. Quello con il #23 sulle spalle è una macchina da soldi unica, da cavalcare anche grazie allo sponsor aggressivo che se lo prende con sé – la Nike – destinato a trasformare il suo cognome in uno dei brand più venduti nel mondo ancora oggi. È chiaro che Stern non si lascerà scappare l’occasione. Ha Air Jordan, Magic Johnson, Isiah Thomas, Charles Barkley e Larry Bird, tutto ciò che basta per commercializzare un campionato attraverso dei personaggi, piuttosto che le loro squadre. E la cosa funziona.
A volerla guardar sotto un’ottica ancor più oggettiva, è proprio l’ultimo della lista – il #33 dei Celtics – quello destinato a equilibrare maggiormente una storia che punta al riscatto dei giocatori neri (non più “tutti drogati”, ma caratterizzati da stili e personalità differenti), senza dimenticare che il maschio caucasico benestante è potenzialmente il principale acquirente del prodotto. La sfida tra Lakers e Celtics è quella tra Magic e Bird, e le differenze più palesi tra i due determinano uno schieramento razziale deciso, ma contemporaneamente abbattono la parte “intollerante” dello stesso a vantaggio dello spettacolo.
Mentre l’America si divide divertendosi, una serie di icone black raggiungono picchi di popolarità inimmaginabili qualche decennio prima, permettendo allo stesso Stern di completare l’opera, riconoscendo nel basket quel potenziale di giocabilità e favorendo attraverso il marketing e l’emulazione, la crescita del “suo” sport urbi et orbi. L’espansione avviene anche fuori dagli Stati Uniti, chiudendo il cerchio e trasformando la NBA in una lega sportiva unica, capace di concentrare al suo interno i migliori giocatori del globo e autonominando i suoi vincitori come world champions, preparandola a diventare quello che ci appare oggi.
Una delle principali argomentazioni dei suoi detrattori è quella secondo cui la lega sia divenuta un circo piuttosto distante dalla “vera” essenza della pallacanestro, accostato progressivamente con l’intrattenimento tanto da fondersi con lo stesso, acquisendone i tratti più grotteschi a discapito del gioco, dove solo la varietà di storie destinate a rigenerarsi di anno in anno riescono a salvare dalla noia. Almeno fino all’inizio dei playoff, quando si inizia a giocare sul serio. Possiamo colpevolizzare David Stern di tutto questo? Possiamo vederlo più come un abile marketing strategist, che come “il più grande commissioner nella storia degli sport”?
Il capolavoro finanziario portato a termine in un trentennio da capo assoluto, trasformando una lega con bassissimo appeal in un top brand mondiale è lì, davanti agli occhi di tutti. Anzi, è stata tanto potente la propulsione di quel treno lanciato a velocità supersoniche verso il futuro, che a Silver sono state sufficienti poche mosse di gestione per mantenerne il ritmo, nella sua immediata salita in cabina di pilotaggio.
Il punto però stava nel salire su quel treno durante la metà degli anni 80, e soprattutto farlo nel modo giusto. Probabilmente senza la fortuna di trovarsi certi giocatori agli albori della propria era, Stern non avrebbe potuto salvare un bel niente, e magari sarebbe stato incapace di avviare quel sistema che ha sfornato – per emulazione – un role model cestistico dietro l’altro. Lo stesso per cui dopo Jordan è arrivato Bryant, poi LeBron James, poi Stephen Curry e ora Giannis Antetokounmpo.
Quindi, se da una parte Stern sia definibile come “genio illuminato” nell’intuire il potenziale globale di un gioco come la pallacanestro, dall’altra non ha certo deciso lui di prendere la cabina di pilotaggio in contemporanea con l’arrivo di MJ e la crescita della rivalità tra Lakers e Celtics.
A voler quindi analizzare il tutto con la dovuta oggettività, la fortuna che ha caratterizzato il suo avvento è stata decisiva nel permettergli di sperimentare tutte quelle intuizioni che hanno fatto la fortuna della NBA, passando da quel decennio dorato che sono stati gli anni 90. È innegabile, comunque, che occorra una discreta dose di genio per farsi trovare al posto giusto e al momento giusto per cambiare la storia, soprattutto salendo su quel treno in corsa, senza nitide prospettive di approdo.