Fino a qualche anno fa, l’associazione tra la parola sneaker e l’NBA produceva quasi sempre due soli risultati: Nike e Adidas. Una sfida eterna tra i due colossi nel contendersi il grande mercato cestistico che è passata in tempi recenti anche per il cambio di sponsor tecnico dell’NBA stessa, che dalla stagione 2017/18 si è legata per otto anni all’azienda di Beaverton.
Da qualche anno a questa parte, però, altri brand hanno iniziato a mettere ai piedi dei cestisti il loro marchio, affacciandosi con forza su un mercato che sembrava quasi impossibile da penetrare. Pensiamo subito alla Under Armour che ha sotto contratto Steph Curry -uno dei giocatori più importanti di quest’epoca- oppure ai marchi cinesi Anta e Li-Ning che vantano sponsorizzazioni, rispettivamente, con Klay Thompson e Dwyane Wade. Ma pensiamo in particolar modo a Puma, la prima rivale storica dell’Adidas, che è tornata a calcare i parquet statunitensi dopo un lungo periodo di anonimato.
Puma è il marchio che sta provando più di tutti a rompere il duopolio, con una strategia ben definita e attenta nella ricerca dei talenti da sponsorizzare. L’ultimo nome, forse quello che ha fatto più rumore, è stato infatti quello di Kyle Kuzma. L’ultimo appunto, perché da quando Puma è tornata operativa nel mondo del basket ha fatto incetta di giovani giocatori in cerca di un brand da portare ai piedi.
Ripercorriamo un po’ la strada fatta in NBA dall’azienda fondata da Rudolf Dassler.
Quanti sanno che Puma è stata la prima azienda di scarpe a mettere sotto contratto un atleta e pagarlo per questo? Onestamente, sono rimasto sorpreso anche io quando l’ho scoperto. Siamo nel 1973, i New York Knicks vincono il secondo anello della loro storia trascinati da Walt Frazier che porta le sue Puma Clyde ai piedi. Questo modello viene creato apposta per Frazier dato che le uniche scarpe da basket che il marchio tedesco possiede all’epoca, le Puma Basket, risultano essere troppo scomode. Poco flessibili, troppo dure per far fronte ai movimenti rapidi del piede che uno sport come la pallacanestro richiede. Così la Puma chiede indicazioni al giocatore per creare la sua prima vera scarpa da basket: “et voilà”…Il resto è storia.
Queste scarpe segnano un nuovo inizio per i brand di sneaker. Da questo momento in poi gli atleti si faranno pagare per vestire sempre lo stesso marchio, ma non solo: gli atleti disegnano la loro scarpa personalizzata e danno indicazioni tecniche per migliorare l’esperienza di gioco grazie alla realizzazione di modelli su misura. Walt Frazier e le Puma Clyde sono i capostipiti di tutto quello che conosciamo adesso, ciò che a noi sembra la normalità.
La Puma, dopo il ritiro di Frazier, continua a far entrare giocatori NBA nella sua famiglia. Nel 1982, c’è Nate Archibald che eredita la figura di uomo immagine nella Lega per la Puma. L’anno successivo entrano anche Alex English e Ralph Sampson, con il secondo che si guadagna un paio di scarpe personalizzate. Isiah Thomas vincerà due anelli consecutivi nel 1989 e nel 1990 sfoggiando le Puma Palace Guard, colorazione bianco-rosso-blu abbinata alla casacca dei Detroit Pistons.
L’ultimo giocatore a cui Puma procura delle sneaker è Vince Carter. Al momento della firma, nell’estate del 1998, in NBA non ci sono altri giocatori con un contratto attivo con la Puma, fatto che la dice lunga su quanto il marchio tedesco in quel frangente non credesse nel mercato cestistico a stelle e strisce. Il rapporto tra il brand tedesco e Vinsanity non è idilliaco. Il contratto decennale dal valore di 50 milioni di dollari, firmato dopo essere stato la 5° scelta overall nel Draft del 1998, dura in realtà solo sedici mesi. Le scarpe sono, a suo dire, scomode; gli provocano dolore ai piedi e per questo decide di interrompere il contratto pagando una penale di circa 14,5 milioni di dollari, spese legali incluse, alla Puma. Questi soldi verranno poi versati nelle casse del brand tedesco direttamente dalla Nike, nuovo sponsor tecnico di Vinsanity.

La verità, quindi, sembra essere una sola. Puma non trova motivi per spendere così tanti soldi per far sì che dei giocatori abbiano le loro scarpe ai loro piedi. Ritiene le sponsorizzazioni troppo costose e poco vantaggiose quando poi si va a vedere il ritorno sull’investimento, sia in termini economici che pubblicitari. La nave NBA viene dunque abbandonata: Puma sparisce dai radar cestistici per circa un ventennio, come se nulla fosse. Ciò che brand come Adidas e Nike fanno regolarmente da anni, è stato fatto per la prima volta da Puma nel lontano 1973 ma non è mai stato abbastanza.
E mentre Adidas e Nike dominano il settore di mercato, col tempo provano a inserirsi a piccoli passi le sopracitate Under Armour, Anta e Li-Ning. A questo punto, qualcuno nella zona della Baviera deve aver pensato che non sarebbe stata affatto una cattiva idea rientrare nel mondo del basket NBA, considerando l’attuale aumento della competitività su scala mondiale. Ma serviva farlo nella maniera corretta, con una strategia che fosse non solo aggressiva ma anche d’impatto. Il lavoro fatto, in questo senso, dal gruppo marketing dell’azienda ce lo possiamo solo sognare.
Siamo tornati, quindi, nel presente. 2018: quarantacinque anni dopo Walt Frazier, la Puma annuncia in grande stile il suo rientro nel mondo del basket. Rifirma, con un contratto a vita, Frazier e ufficializza Jay-Z in veste di direttore creativo, e non presidente come si è letto, di Puma Basketball. Sono anni che il rapper naviga nelle acque dell’NBA in veste di imprenditore e i risultati per ora sono stati positivi.
La maggior parte di coloro che stanno leggendo ricorderà sicuramente che i Brooklyn Nets sono diventati tali per volere di Jay-Z. Non solo ha trasferito la squadra dal New Jersey a Brooklyn nel 2012, migliorandone l’appeal, ma ha anche accompagnato il trasferimento con un processo di rebranding. Tutto questo all’interno di un progetto di creazione della brand identity unico nella storia della lega, al passo coi tempi. Nel 2013, poi, ha fondato la Roc Nation Sports, divisione sportiva della Roc Nation, che si occupa di rappresentare i suoi clienti in quanto agente. Motivo per cui la NBA gli aveva imposto di lasciare la proprietà dei Brooklyn Nets. Ma torniamo a noi.
Nella squadra di Puma Basketball, oltre a Jay-Z, entrano subito tre rookie della classe draft 2018. DeAndre Ayton e Marvin Bagley, rispettivamente prima e seconda scelta del draft in questione, sono le prime stelle del nuovo corso cestistico di Puma. Il terzo è Zhaire Smith, prospetto interessantissimo della lega e cliente di Roc Nation Sports. Tutti e tre firmano il contratto prima del draft con Bagley che può vantare anche lo sneaker deal più ricco per una matricola dai tempi di Kevin Durant. Mica male come nuovo approccio.
Puma non ha aspettato le star, non ha puntato su una figura centrale e ruotato tutta la sua produzione settoriale su un unico giocatore (come sta facendo la Under Armour con il due volte MVP Steph Curry). Puma ha optato per la soluzione più complessa e, forse, meno redditizia nel breve termine. Il motto è far entrare nella famiglia i giovani che fra un po’ di anni saranno il volto della lega. Non è casuale che la mission della Puma sia “Forever faster”. Più veloci degli altri nell’ingaggiare i talenti che i fan osanneranno negli anni a venire.
E così Puma mette sotto contratto altri giovani giocatori della classe draft 2018, Kevin Knox e Michael Porter Jr., e due nomi già importanti nella lega come Rudy Gay e Terry Rozier. Nel roster, prima dell’inizio della passata stagione, entra anche DeMarcus Cousins, il primo All-Star NBA a vestire Puma dai tempi di Isiah Thomas. Qualche giorno dopo è il turno di Danny Green, che con le nuove sneaker vince l’anello a Toronto.
Quest’anno, si sono aggiunti alla lista i rookie del 2019 (RJ Barrett e Kevin Porter Jr.), Sterling Brown, Danny Green, Kyle Kuzma (per cui è stato anche creato un gioco di parole con il cognome, dando vita a un logo della Puma rivisitato, al fine di sponsorizzare maggiormente la partnership) e, proprio qualche giorno fa, Marcus Smart. A questo gruppo, si aggiungono anche le giocatrici WNBA Skylar Diggins-Smith e Katie Lou Samuelson.
Puma è rinata e, da quando è entrata nel basket, cresce a dismisura. Il fatturato del 2018 è di 4,6 miliardi di euro, con una crescita del 12,2% rispetto all’anno precedente. Va sottolineato che quasi la metà del fatturato arriva, logicamente, dalle scarpe che, per la prima volta nella storia del brand, hanno sfondato il muro dei 2 miliardi in termini di vendite. Numeri impressionanti che assumono ancora più significato se paragonati a quelli di Nike e Adidas. I primi fatturano 36,4 miliardi, con un aumento di sei punti percentuali sul 2017. I secondi, invece, crescono, rispetto all’anno precedente, dell’8%, toccando quota 21,9 miliardi di fatturato.
La crescita di Puma è pure più evidente nel 2019. Negli ultimi tre mesi, ha fatturato 1,48 miliardi, risultando essere questo il miglior trimestre di sempre per Puma, a detta del CEO Bjørn Gulden. Secondo le previsioni Reuters, il fatturato del 2019 sarà pari a 5,4 miliardi di euro, con un incremento del 17,3% circa rispetto all’anno precedente.
Puma ormai pare stia spiccando il volo tra NBA, il Renaissance Kit per la Nazionale italiana di calcio, le sponsorizzazioni in Formula 1 a Mercedes, Ferrari e Red Bull e le collaborazioni con Rihanna e Cara Delevingne. Sicuramente possiamo considerarla la terza potenza del mercato: la questione è capire se un giorno, magari fra una decina d’anni, la vedremo concorrere con i leader. Difficile prevederlo vista la molteplicità dei fattori in gioco ma non ci sono molti dubbi sul fatto che possa essere quello l’obiettivo a lungo termine.