Ogni anno, in sede di draft, c’è tantissima euforia nell’attesa dei nuovi prospetti che verranno scelti in lottery. E le scelte al secondo giro? In questo articolo cercheremo di fare una analisi statistica sulla parte meno “nobile” del draft nba.
Premessa: i draft presi in analisi si fermeranno a quello del 2013, per dar modo di analizzare a pieno la bontà delle scelte ed evitare giudizi affrettati sui draft più recenti che potrebbero sempre nascondere delle sorprese (la rinascita di Wiggins? La consacrazione di Myles Turner?): l’obiettivo è quello di spiegare cosa significhi, statistiche alla mano, scegliere al secondo giro del draft, e quanto queste scelte abbiano un’incidenza sul futuro della franchigia.
Se il 90% del clamore mediatico del draft si esaurisce una volta superate le prime 12/15 scelte, che appartengono alle squadre rimaste fuori dai playoffs, il restante 10% si concentra sullo scovare le steal, ovvero quei giocatori che per qualsiasi motivo sono finiti nei bassifondi del draft, snobbati dalla maggior parte delle squadre ma che col tempo riescono ad affermarsi nella lega fino a diventare giocatori chiave o addirittura all star.
Draymond Green (scelto alla N. 35 nel 2012), ad esempio, è diventato l’epitome del significato di “steal of the draft”, perorando la causa di chi dice che anche una seconda scelta può avere un valore inestimabile, se spesa nel modo giusto. Il draft del 2012 è una miniera d’oro per chi sostiene che si possano pescare diamanti anche in mezzo alla “spazzatura” del secondo giro: prima di Draymond Green è stato scelto Jae Crowder, a seguire sono arrivati Khris Middleton e Will Barton, diventati tutti, chi più chi meno, uomini chiave per squadre da playoff (giusto per fare esempi senza dover scomodare, come ogni volta accade, i San Antonio Spurs).
Nonostante gli scout giochino un ruolo fondamentale nel draft, le loro valutazioni non sono sempre sicure e quantificabili, in quanto i giocatori vengono valutati in contesti differenti e valutando un potenziale che non sempre riesce ad esprimersi per mille motivi. Queste valutazioni, spesso, portano infatti a scelte in lottery disastrose (i famigerati bust), e il margine di errore aumenta a dismisura addentrandosi nei bassifondi del draft. C’è poi da dire che, frequentemente, i giocatori scelti al secondo giro trovano consacrazione ad anni di distanza dal draft, magari in squadre diverse da quelle che li hanno scelti, come ad esempio Isaiah Thomas, scelto alla N.60 da Sacramento e consacratosi come go-to-guy nei Boston Celtics, riuscendo ad inserirsi nella corsa all’MVP, salvo poi tornare nell’oblio, vittima di infortuni, nelle stagioni successive.
Con il senno di poi, la maggior parte dei draft, al secondo giro, si conclude con:
- Un paio di ottimi giocatori
- Qualche “role player” di discreto affidamento
- Giocatori che alternano partite nella G-League (la lega satellite della nba) e rari scampoli di garbage time con la franchigia “madre”
- Giocatori che non giocheranno neanche un minuto in NBA.
L’analisi
Analizzare singole scelte o un singolo draft particolarmente ricco di sorprese, non fornisce un quadro adeguato sulla possibilità di successo delle seconde scelte. Quale fattore quindi, se esiste, può valutare il valore di una seconda scelta al draft?
Per questa analisi è opportuno analizzare a ritroso i draft degli anni passati, e considerare soltanto quanti giocatori abbiano più o meno raggiunto negli anni l’obiettivo minimo di inserirsi in pianta stabile nella lega.
Queste cifre sono ovviamente indicative e non portatrici di verità assoluta, considerando che i criteri di scelta in fase di draft sono cambiati con il passare degli anni, di pari passo con il cambiamento dello stile di gioco.
Verranno presi in analisi i 2nd round di ogni draft dal celebre draft del 2003 al 2013. Questo periodo ci permette, inoltre, di prendere in analisi anche l’ultimo periodo in cui era permesso dichiararsi per il draft uscendo dall’high school e la conseguente restrizione, istituita nel 2007, della “one-and-done” rule, senza andare oltre il draft del 2013, con l’intento di “concedere” ai giocatori presi come campione un margine abbastanza ampio per poter dire la loro nella lega.
Dal 2003 al 2013 sono stati draftati 328 giocatori al secondo giro. In questo periodo, non meno di quattro giocatori per ogni draft NON hanno mai fatto parte di un roster NBA. In totale, il numero di seconde scelte che, per qualsiasi motivo, ha finito per non giocare mai un singolo minuto nella lega, è di 84. Ovvero più di un quarto (25,61%) dei giocatori esaminati.
Considerando poi le basse aspettative riposte nei prospetti del secondo giro, si può dire che i restanti 244 giocatori che si accingono ad entrare nell’universo NBA abbiano soddisfatto i requisiti minimi che le franchigie richiedono ai prospetti provenienti dal draft. Questa è, però, solo una prima scrematura, poiché la gran parte di questi 244 giocatori ha avuto un impatto quasi inesistente, poche manciate di minuti o qualche comparsata. L’analisi sarà però incentrata soltanto sui giocatori che hanno giocato almeno 3 anni nella lega (indipendentemente da contratti e/o minutaggio).
Dei 244 sopra citati, i giocatori che rispondono a questo requisito sono 86 (sempre il 26% circa). Quindi, in media, la probabilità che una franchigia trovi un giocatore in grado di contribuire per diversi anni alla loro causa è esattamente la stessa di trovare un giocatore che non sarà mai in grado di giocare in NBA per qualsivoglia motivo (tecnico, fisico, tattico, comportamentale o personale).
E’ facile scorrere i draft, arrivare nei pressi del secondo giro ed essere catturati dai giocatori che hanno avuto anni d’oro nella lega: per esempio, di questi 328 giocatori, sette sono stati All Star almeno una volta (Mo Williams, Kyle Korver, Paul Millsap, Marc Gasol, Isaiah Thomas, Draymond Green e Khris Middleton). Due giocatori invece, DeAndre Jordan e Goran Dragic, hanno fatto parte dei quintetti “All NBA” senza essere mai convocati per il weekend delle stelle. Questo discorso, in ogni caso, è abbastanza limitato in termini di valutazione; dopo tutto, l’All Star Game ed i quintetti All-NBA non sono gli unici indicatori del valore dei giocatori, che spesso vengono ignorati a causa del loro stile di gioco o delle cifre modeste.
Isolare l’impatto di un particolare giocatore, non considerando il contesto in cui deve misurarsi è complicato e (forse) semplicistico, a differenza di sport più inclini alla scienza delle statistiche (come il Baseball, Moneyball insegna), in cui le cifre si riflettono abbastanza fedelmente sul rendimento di gioco in senso assoluto. Per questa analisi quindi, onde evitare di far confusione con una carrettata di stats più o meno utili, useremo la “Win shares per 48 minutes” (WS/48), ovvero la percentuale di vittorie a cui un giocatore ha contribuito su 48 minuti giocati, in modo da dare un riscontro solido e generale dell’impatto individuale di un giocatore (statistiche reperibili su basketball-reference.com).
Usando questo parametro è possibile eliminare i giocatori quantitativi da quelli qualitativi, ovvero i giocatori che nel corso delle stagioni hanno fatto “numero” senza mai dare un apporto positivo significativo alla propria squadra, eliminando quindi momenti morti ma rilevanti a livello di meri numeri come il “garbage time”. Questo restringe ulteriormente il gruppo degli 86 giocatori “di rilievo” rimasti, in quanto solo 24 di questi sono riusciti a raggiungere, in almeno una stagione NBA, un coefficiente di WS/48 di almeno 0.130.

In ogni draft dal 2003 al 2012 c’è stato almeno un giocatore in grado di superare questa soglia, quindi di diventare parte integrante e fondamentale di una franchigia NBA, cosa non verificatasi invece nel disastroso draft del 2013, uno dei peggiori di sempre, che ha portato, inevitabilmente, ad secondo giro inesistente. Il miglior giocatore? Allen Crabbe.
Guardando queste cifre, anche se a livello molto generale, è comunque evidente di quanto scegliere al secondo giro sia come cercare un ago in un pagliaio. Le chance di pescare un giocatore almeno in grado di contribuire positivamente all’andamento di una squadra, su un campione che abbraccia 11 anni, è circa il 7%.
Qualche esempio pratico
Questa più totale mancanza di certezze nello spendere bene una seconda scelta, rende infatti quasi impossibile tracciare un modello “x” di giocatore che è consigliabile cercare nei meandri di un secondo giro. Mettendo da parte le cifre, facciamo qualche esempio pratico.
Nel draft del 2006, viene scelto alla 47th Paul Millsap, ala da Louisiana Tech. Come anche Draymond Green, Millsap è un giocatore efficiente in grado di mettere insieme ottime cifre, unite ad un gioco di alto livello su entrambe le metà campo, mostrando ottime skills da “all around player” in NCAA, ma è stato visto dalla maggioranza degli scout come un ibrido tra diversi ruoli, che non garantiva sicurezze in nessuno di questi, non abbastanza fisico e grosso per giocarsela fisicamente con le PF dell’epoca (Duncan, Garnett, Gasol e compagnia) e non abbastanza veloce ed atletico per vedersela con le SF. Queste incertezze lo fanno scivolare alla 47 (Utah Jazz), nonostante le ottime premesse di poter mantenere, anche a livello NBA, quanto di buono mostrato al college: rimbalzi, difesa e buona percentuale di rubate per un “lungo”.
Due anni dopo, i Phoenix Suns scelgono con la 45 una semi-sconosciuta guardia slovena, Goran Dragic, per fare da backup alla loro stella Steve Nash. Nonostante lo stupore generale e i borbottii della maggior parte degli addetti ai lavori, Dragic è comunque riuscito a giocare 55 partite nel suo anno da rookie e 80 in quello da sophomore, in un contesto vincente e competitivo.
Con un hype diametralmente opposto, invece, 10 scelte prima, i Clippers scelgono DeAndre Jordan, centro da Texas A&M. Contrariamente al play dei Suns, DeAndre era ben conosciuto dagli addetti ai lavori, un centro con doti atletiche mostruose, una facilità di corsa da esterno, ma con uno skillset praticamente inesistente. Prima del draft DeAndre era quotato come una potenziale scelta lottery, i workout pre-draft e un’etica del lavoro non proprio da Stachanov lo relegano invece all’inizio del secondo giro.
Cosa hanno tutti questi giocatori in comune? Sono forse questi esempi di “talento” trascurato o mal giudicato dagli scout? Forse.
Ma Millsap, Dragic e Jordan sono ciò che di più opposto ci possa essere su un campo di pallacanestro in termini di fisico, atletismo e bagaglio tecnico.
E’ pressoché impossibile, quindi, stabilire un metro di giudizio generico e “convenzionale” per valutare certi giocatori e confrontarli con altri pari ruolo, specialmente in una zona del draft dove, ormai svaniti i maggiori talenti, i prospetti rimasti hanno certamente degli aspetti da migliorare o da eliminare nel loro gioco, e dove gli eventuali pregi assumono contorni nebulosi.
Analizzando invece le dinamiche di squadra, possiamo notare quanto segue.
Al primo giro del 2005, i Jazz optano per il futuro All Star Deron Williams, da affiancare a Boozer e Mehmet Okur. Nella prima stagione da rookie di Millsap (2006/2007), i Jazz erano in ascesa, migliorano il loro record in Regular Season della stagione precedente (.500), e vincono non meno di 48 partite per 4 stagioni consecutive. In media, dal 2006 al 2010, Utah vince più del 62% delle partite, raggiungendo due volte le finali di conference ad ovest.
Anche Dragic, come Millsap, viene subito trapiantato in un contesto vincente, nonostante i 7-second or less di D’Antoni, Nash e Stat avessero ormai iniziato la loro parabola discendente.
Jordan d’altro canto, non è stato altrettanto fortunato, almeno nelle prime stagioni. I Clippers occupano infatti gli ultimi posti della Western Conference nelle prime tre stagioni di DeAndre, ma grazie a questi pessimi risultati la squadra si assicura la N.1 al draft 2009, trasformata in Griffin, e dopo l’arrivo di CP3 si formano i big-3 dei Clippers che raggiungeranno i playoffs con continuità.
Questi tre giocatori, come le altre “perle” del secondo giro, i vari Gasol, Korver e Green non hanno niente in comune in termini di skills e scouting report con quasi tutti i pari ruolo di scuola NCAA o europea, tantissimi sicuri difetti e lacune, a fronte di ben poche solide e sicure rassicurazioni in termini di rendimento al “livello superiore”. Quindi, gran parte del loro successo è sicuramente dovuto a quanto le loro franchigie siano state in grado di sviluppare il loro gioco ed adattarli alla pallacanestro NBA che, sulla carta, avrebbe dovuto vederli sopperire in un modo o nell’altro dopo poco tempo, ma questo processo di crescita difficilmente si sarebbe potuto replicare e standardizzare su altri giocatori, dato che i talenti da secondo giro sono spesso peculiari ed unici proprio a causa dei difetti per i quali sono stati scartati al primo giro.
Conclusioni
La maggior parte dei prospetti, solitamente ritenuti di maggior talento vengono, senza alcuna sorpresa, scelti nelle prime 10 posizioni del secondo giro (30-39). Questo è significativo per due ragioni: la prima e più ovvia ragione è che le seconde “alte” sono generalmente discreti prospetti che sono molto vicini allo status di prospetti da primo giro, a seconda della profondità del draft; la seconda è che finiscono in squadre con un record vincente basso e che quindi sono in cerca di giocatori da sviluppare e su cui puntare, e che cercano di massimizzare anche le scelte al secondo giro puntando solo sul potenziale e trascurando la visione d’insieme.
A prescindere da quale zona del secondo giro un giocatore vada a posizionarsi, nella prima metà o nella seconda metà, il successo individuale del giocatore va spesso a legarsi indissolubilmente al relativo successo della squadra in cui si trova a giocare.
A differenza delle scelte lottery, il talento dei giocatori al secondo giro è ampiamente influenzato dal sistema di gioco, dal contesto, in cui esso si colloca.
In altre parole, questi giocatori non esplodono a causa del loro talento in qualsiasi squadra, a differenza di giocatori come CP3 o Lebron, in grado, da soli, di cambiare volto ad una franchigia.
Per questo motivo, il contesto vincente e stimolante, per un giocatore da secondo giro, è tanto importante quanto qualsiasi altro metro di giudizio per poter valutare il prossimo Draymond Green o il prossimo Millsap.
Ma se questo è vero, è vantaggioso per i team in fase di “tanking” ammucchiare seconde scelte?
Quanto appena detto in questa analisi, suggerirebbe che avere seconde scelte di qualità non ha molto senso, se la squadra che le usa non ha intenzione di diventare contender, o comunque invertire il trend negativo nel futuro prossimo, portando una stella in squadra con una scelta in lottery, tramite trade o free agency, che affianchi questi prospetti, per quanto siano utili o funzionali, ma incapaci da soli di cambiare volto ad una squadra.
Se un giocatore del genere finisce in un contesto perdente, le probabilità di mettere a frutto il suo talento “latente” è sensibilmente più bassa, anche se si trova a giocare in situazioni dove può disporre di ampio minutaggio, che nei team in fase di tanking è spesso privo di senso e puramente fine a se stesso.
Pescare un buon giocatore nel secondo giro del draft è quanto di più difficile possa esserci, ma non è esatto dire che le scelte sono fatte a caso. I criteri di scelta devono essere differenti rispetto a quelli usati per il primo giro, dove si sceglie il “best available” e si cerca di trovare quanto prima minuti e spazio.
É corretto affermare, senza paura di sbagliare, che avere fin dai primi passi nella lega stelle e campioni che giocano al fianco di questo tipo di giocatori, in modo da aiutarli a trovare la loro direzione e ritagliarsi uno spazio importante nella lega, anche a fronte di minutaggi ridotti, è propedeutico e di primaria importanza per lo sviluppo dei “second rounders”, molto più che degli alti minutaggi che garantirebbero squadre perdenti, che spesso bruciano questi talenti buttandoli anzitempo in campo e bollandoli come non adatti prima che questi riescano a sviluppare il loro potenziale.
Concludendo, valutare un giocatore del secondo giro in un eventuale “mock draft”, estrapolato dal contesto nel quale si troverebbe a giocare, è quasi impossibile se non controproducente; “sparare nel mucchio” ammassando scelte nella speranza di fare bingo, come fanno i team in fase di rebuilding, è puro esercizio statistico (i numeri li avete visti prima). È molto più utile invece cercare il pezzo mancante, il giocatore che meglio si amalgama con l’organico a disposizione.
Non è il talento che si deve cercare nel secondo giro di un draft, che con il primo giro, non ha nulla a che spartire. Abbiate fede nella “draftology” ma solo fino alla N.30, mi raccomando.