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Chi può salvare Carmelo Anthony?

Alessandro Ranieri by Alessandro Ranieri
18 Gennaio, 2020
Reading Time: 8 mins read
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Chi può salvare Carmelo Anthony?

Copertina a cura di Francesco Villa

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Fa molto strano dare il via alla nuova stagione NBA e vedere parlare delle due squadre di Los Angeles completamente rivoluzionate, del ritorno dei Brooklyn Nets con Kevin Durant, di come Curry si muoverà senza KD, e non vedere Carmelo Anthony su qualche parquet a sparare da tre punti come solo lui sa fare. La parabola discendente del futuro Hall of Famer e dieci volte All-Star abbraccia un insieme di tematiche che partono dagli ultimi playoff disputati con i New York Knicks nella stagione 2012-2013 e arrivano a Houston, Texas. Proprio da qui, appena un anno fa, si spengono le fiamme nelle mani di ‘Melo. Perché, nonostante la questione parta da una ragione puramente tecnico-tattica di inefficienza nella fase difensiva, in realtà nasconde un’altra serie di fattori che lo hanno fatto discendere negli inferi.

La stagione 2017-2018, quando Anthony faceva parte di OKC, lo aveva visto confermare la sua grande abilità nel tiro da tre punti (37.3%), anche se al di sotto delle sue reali possibilità. In effetti, tutti erano a conoscenza di come potesse essere l’ago della bilancia fondamentale per spostare gli equilibri offensivi, ma lo stesso non si poteva affermare quando giocava in difesa. Analizzando la serie playoff di due stagioni fa contro gli Utah Jazz possiamo capire quanto fosse diventato ingombrante nel gioco di Oklahoma:

• In 194 minuti con Anthony in campo, i Jazz hanno superato i Thunder di 58 punti e i OKC ha avuto un punteggio netto di -12,6.

• Nei 94 minuti con Anthony in panchina, i Thunder hanno superato i Jazz di 32 punti e hanno avuto un punteggio netto di +18,1.

Arrivato con l’obiettivo di incrementare il livello di talento della squadra e trovare un proprio equilibrio psicofisico, ‘Melo si è trasformato in una palla al piede da scaricare al più presto, e cosi è stato. Il sistema di gioco odierno si è notevolmente evoluto rispetto a 15 anni fa, in cui le dimensioni e la forza fisica erano fondamentali per creare un team in grado di poter competere. All’improvviso, tutto ciò viene annullato dalla crescita di importanza di fattori come la rapidità, la velocità e la versatilità. Steve Nash diventa l’ambasciatore di questa nuova filosofia, e Carmelo Anthony ne soffre parecchio.

Quando nel 2003/04 Anthony entra in NBA, i sistemi di gioco sono ancora proiettati verso l’attacco (35.492 tiri da 3) e la figura del tiratore dal mid-range può essere inserita molto più facilmente nei meccanismi tattici. Difatti, Anthony si crea rapidamente una figura di spicco nella lega come uno scorer stellare e come un giocatore dalle prospettive infinite. Un report dettagliato del 2003 sulle sue skill e abilità in campo non lasciavano che ottimi presagi sul futuro in NBA di Melo:

“[È un] giocatore fluido che dimostra grande atletismo nonostante non sia un saltatore esplosivo… [ha già un] istinto naturale per il gioco che la maggior parte dei giocatori deve ancora sviluppare“.

Il problema dell’ex giocatore di Syracuse, che lo ha portato alla situazione odierna di limbo, è stata la mancanza di voler salire di livello su tutti gli aspetti del gioco, specialmente quello difensivo, in cui ha sempre mostrato notevoli limiti. È questo il reale dramma di Anthony, una mentalità che è rimasta troppo radicata solo nel saper valorizzare i propri punti di forza e senza aprire gli occhi su cosa gli mancasse per essere un giocatore completo. Chauncey Billups si è espresso chiaramente sul perché Melo non sia riuscito a trovare una squadra che puntasse su di lui:

“La ragione per cui non è in NBA—nonostante sia ancora un giocatore valido—è che non ha ancora fatto quel passo indietro per dire ‘OK, giocherò contro le riserve, proverò ad aiutare la squadra. Potrò non concludere le partite, ma voglio solo aiutare.’ Non l’ha ancora fatto.”

Nessuno ha mai chiesto a Carmelo Anthony di diventare un difensore al livello di Kawhi Leonard, ma solo un cambio di prospettive mentali. Uno dei coach vicini a Carmelo Anthony aveva riassunto il suo declino cosi: “Quando sei uno dei dieci migliori giocatori della lega per dieci anni, pensi che lo rimarrai per sempre“.

https://www.youtube.com/watch?v=Xi1trwEIzVc

Il vero punto di non ritorno per Melo arriva proprio nell’ultimo anno appena trascorso, in cui riesce a convincere gli Houston Rockets a dargli una chance, ma solo per poco tempo. Mike D’Antoni aveva lasciato pensare che il suo arrivo avrebbe fatto comodo al suo sistema e che gli scontri ai tempi dei Knicks (nella disastrosa stagione 2011/2012) fossero ormai acqua passata. L’obiettivo era farlo entrare nelle rotazioni in modo graduale, affiancandogli James Harden e Chris Paul su tutti, per sostituire la partenza di Ryan Anderson. Tutti nello staff di coach D’Antoni erano ben fiduciosi di averlo in squadra, cosi da poter avere uno specialista offensivo. Prima di partire definitivamente in questa avventura, Anthony si era seduto a tavolino con la società e D’Antoni per delineare il suo vero ruolo: essere il sesto uomo di peso.

Durante il training camp in Louisiana, i coach si accorgono delle lacune difensive di Anthony, che si affida spesso e volentieri al gioco in pick and roll. Era chiaro che, da quel momento in poi, Melo potesse diventare l’anello debole della difesa texana. Nelle prime cinque sconfitte dei Rockets, gli avversari tirano il 54% quando Anthony è il difensore più vicino. Siamo agli inizi di novembre e i texani si ritrovano contro il passato recente di Melo, gli Oklahoma City Thunder. I Rockets si trovano sotto 86-64 nell’ultimo quarto di gioco e il numero 7 in maglia rossa si appresta ad effettuare l’undicesimo tiro da 3 della sua gara, il primo a centrare la retina in tutti e 48 minuti.

Sono gli ultimi secondi in cui vedremo Carmelo Anthony in campo. Viene chiamato un timeout, Anthony esce e non rientra. La partita termina con una sconfitta di 18 punti di scarto. È necessario fare dei cambiamenti drastici, e il tempo non è a suo favore. Anthony non sa che Daryl Morey, GM degli Houston Rockets, ha già pianificato il taglio del suo contratto. Il faccia a faccia decisivo arriva 24 ore dopo quella gara, in un albergo di San Antonio, dove avrebbe dovuto giocare il giorno dopo. Dopo appena dieci partite, ‘Melo è fuori dal progetto dei Rockets.

È il momento più basso della sua carriera e trascorrerà il resto della stagione a saltare di trasmissione in trasmissione, avviare campagne di auto-recruting sui vari social e su Instagram e, specialmente, vedremo l’anima buia e ferita di Carmelo Anthony. Da mesi, posta solo foto con didascalie religiose e metaforiche per ricordare a tutti chi è stato e cosa si stanno perdendo. “#STAYME7O” è il suo slogan di protesta, se cosi vogliamo chiamarlo. Quelle dieci partite lo hanno letteralmente lasciato per terra, hanno disintegrato una carriera stellare e lo hanno relegato ai margini come un reietto.

A differenza di Dwayne Wade, onorato alla grande nell’ultima parte di stagione scorsa, nessuno ha dato l’idea di un farewell tour d’addio per il contributo al gioco di Carmelo Anthony. “Sta tutto nel fit” afferma Wade. “La cosa più difficile – per i GM, i proprietari e i giocatori – è come trattare una superstar che sta invecchiando. Tutto deve funzionare perfettamente. Tutti devono fare i sacrifici giusti, devono esserci un gruppo e un allenatore adatti.“. Con Carmelo Anthony nulla di ciò sembra aver funzionato.

Per vedere quanto Anthony sia legato al gioco con un sentimento puro e ricolmo di tutto tranne che rassegnazione, ritorniamo al 10 aprile scorso, al Barclays Center di Brooklyn. Siamo all’ultima partita del #3 dei Miami Heat in NBA, e alcune star come LeBron James, Chris Paul e lo stesso Anthony sono presenti per rendergli omaggio. Quando mancano pochi minuti al fischio finale, un tiro dei Nets rimbalza sul ferro esterno del canestro e arriva nelle mani di Hoodie ‘Melo, seduto in prima fila. Entra in campo, prepara il tiro e per un momento ci pensa seriamente. Il pubblico emana applausi e grida di grande stupore, tra le risate di LeBron e Paul a bordocampo. L’affetto nei confronti di Melo è presente in tutti i palazzetti americani e, rivederlo in quel momento nella sua posizione preferita, non ha fatto altro che trasmettere emozioni di vicinanza alla sua difficile situazione.

Al momento, l’unico posto in cui è possibile vederlo giocare e allenarsi si trova nel lussuoso complesso a Hell’s Kitchen, tra la 11th Avenue e la 42nd Street. Da solo, tra i rimpianti del passato e le ombre sul futuro. La Grande Mela è comunque il posto in cui lo abbiamo visto al top della sua carriera, con i New York Knicks nella stagione 2012-2013, e lui lo sa meglio di tutti. I problemi al ginocchio di Stoudemire lo costrinsero a cambiare posizione come ala grande e la squadra salì di livello contro tutte le previsioni. Segnarono una media di 110.5 punti per 100 possessi tennero un Net Rating di +6.2 con Anthony in campo.

Anthony ha guidato la NBA con 28,7 punti per partita in quella stagione. Ha segnato il 37,9% dei suoi tiri da 3 punti, il secondo miglior dato della sua carriera, tentandone 6.2 di partita (career high). I Knicks avrebbero continuato a vincere 54 partite della stagione regolare, terminando con il secondo miglior record della Eastern Conference, vincendo il loro primo titolo della Atlantic Division in quasi due decenni e vincendo una serie di playoff per la prima volta in 13 anni. In quel momento non si poteva negare l’efficienza sul campo di Melo, carico di responsabilità e al centro del team.

Basta dare uno sguardo a qualche video in rete e accorgersi del Madison Square Garden sempre tutto esaurito. L’effetto Anthony era al suo picco, con totale fiducia dei compagni e un pubblico ripagato dopo tanti anni di baratro. Ogni giocata a segno del numero 7 alzava una baraonda bianco-arancio in tutti gli angoli del MSG. Non si poteva non godere nel vedere la fluidità e la leggerezza con cui segnava una tripla dopo l’altra.

In una delle recenti interviste rilasciate da Carmelo Anthony a Stephen A. Smith di ESPN, l’ex Knicks si apre a 360 gradi: “Mi sentivo uno schifo, qualcuno che ti dice che non ha più bisogno di te, mi sono sentito come se mi avessero licenziato… Ho sentito come se non volessi più partecipare a tutto ciò. Io ho amato il gioco, ma il gioco non ha amato me”. Lui ama il gioco, ma il gioco non ama lui. Carmelo Anthony, a 35 anni compiuti lo scorso maggio, vuole dimostrare che ha ancora il colpo in canna, ma sembra che nessuno sia disposto a farlo sparare per un’ultima volta.

Tags: Carmelo AnthonyHouston RocketsNew York KnicksOklahoma City Thunder
Alessandro Ranieri

Alessandro Ranieri

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