Con il recente taglio da parte dei Rockets, Anthony Bennett e l’NBA sono tornati a guardarsi come un astronauta perso nello spazio guarda la Terra. Di fronte a lui un lungo abisso senza fondo e qualche chilometro più in là la sua casa.
Anthony Bennett, però, non è stato una Supernova come Brandon Roy o un Sole che progressivamente è diventato una Nana Bianca come Grant Hill. Bennett è stato un buco nero talmente massivo da inghiottire sé stesso.
Paradossalmente l’inizio della sua carriera NBA è stato esso stesso la sua fine. Il vestito che gli era stato cucito addosso la notte del draft era semplicemente troppo largo per la sua pur grossa corporatura.
Il viaggio di Bennett parte da Findlay, nel Nevada, curiosamente con compagno di squadra Amedeo Della Valle. Domina, com’è normale per un futuro five star recruit. Viene nominato McDonald’s All American e soprattutto prende parte sia al Jordan Brand Classic che al Nike Hoop Summit, due istituzioni nell’ambito del basket giovanile. Anche qui la narrativa sembra proseguire verso una carriera luminosa. Bennett si concede il lusso di segnare pure la tripla decisiva per la vittoria del Team World contro un Team USA ricco di giocatori NBA come Gary Harris, Noel e Kyle Anderson.
Attira subito l’attenzione dei grandi college ed è reputato unanimemente la miglior ala grande della classe 2012, e un Top-8 dell’annata. Già dalla scelta del college si può intuire quel mindset che lo accompagnerà per tutto il resto della carriera. Sceglie infatti di restare nel Nevada, ad UNLV, rifiutando l’offerta di college più prestigiosi come Kentucky, probabilmente per non uscire troppo dalla propria comfort zone.
Ad UNLV la narrativa di Anthony Bennett come futura star NBA prosegue senza intoppi. Tiene medie di 16 punti e 8 rimbalzi a partita in 27 minuti, mostrando quell’atletismo e quel primo passo esplosivo che aveva mostrato all’high school. La squadra però non è un granché, tant’é che solo due suoi compagni di squadra passeranno poi in NBA e i nomi non sono certo quelli che ti fanno fare le nottate con il League Pass. Il più famoso è Khem Birch, onesto role player ai Magic, l’altro è Bryce Dejean-Jones, un vero e proprio carneade con solo 14 partite NBA all’attivo con i Pelicans.
La stagione dell’Università del Nevada si spegne al primo turno dell’NCAA Championship contro i Golden Bears e Anthony saluta con un tabellino agrodolce di 15 punti e 11 rimbalzi ma col 36% al tiro. Si dichiara senza troppe sorprese al Draft 2013 e viene considerato sin da subito un prospetto da top5, in lotta con Otto Porter Jr. per il titolo di miglior ala del Draft. Tutto andava secondo i piani.
La fine dei vent’anni per Anthony Bennett è quella dove la sfortuna prende la forma di una fortuna. I Cleveland Cavaliers, nel pieno della loro ricostruzione post LeBron James, decidono di sceglierlo tra la sorpresa generale con la numero 1 assoluta. Gran parte degli analisti è sconcertata. Bennett era considerato si come un prospetto da lottery e da top5, ma ci si aspettava che la numero 1 assoluta cadesse sulla testa di Nerlens Noel, considerato il prospetto top di quella classe, o di Otto Porter Jr.
Emblematica è la reazione di Bill Simmons:
A distanza di anni sembra ovviamente una scelta disastrosa, dato che Bennett viene considerato uno dei più grandi, se non il più grande, bust della storia NBA. Però la sua scelta alla #1 overall, per quanto sembrasse anomala anche all’epoca, non era senza basi solide.
Il canadese si era distinto al college come una minaccia offensiva variegata, ma soprattutto temibile nei pressi del canestro. Nonostante fosse considerato undersized per il ruolo con i suoi 203 centimetri (Ah, il 2013…) compensava con un primo passo veramente esplosivo con cui poteva andare al ferro con facilità e una wingspan notevole per uno della sua altezza, ben 215 cm. La sua capacità di dominare al ferro era testimoniata da dati élite, ben 1.39 punti per possesso nei pressi del canestro. Qui ad esempio brucia il difensore senza pensarci un secondo:
Non aveva un repertorio variegato di finte e ganci, e infatti era un giocatore abbastanza limitato spalle a canestro, generando 0.89 punti per possesso in post secondo Synergy. Aveva comunque dimostrato un’ottima sensibilità di mano vicino a canestro, specialmente nei floater e nell’utilizzo della tabella à la Duncan. Considerata la mano che aveva, non era difficile pronosticare un miglioramento nel repertorio spalle a canestro. Generalmente preferiva attaccare fronte a canestro sfruttando la lunghezza delle braccia e le sue capacità al tiro.
Nel primo possesso dopo aver seguito bene la transizione chiude con un pregevole (e difficile) finger roll. Nel secondo sfrutta la sua lunghezza di braccia per cavarne 2 punti da vicino:
Proprio le capacità al tiro erano il fiore all’occhiello del fu prospetto canadese. Per tutta la stagione a UNLV ha tirato con il 37% da 3, ma soprattutto mostrando una buona forma di tiro già NBA-ready:
Le potenzialità di Bennett dal punto di vista offensivo erano veramente intriganti, aveva i mezzi per poter diventare una minaccia in pick’n’pop e aveva il range per generare ottime spaziature. Le percentuali ai tiri liberi, di solito un ottimo indicatore per la capacità di traslazione del tiro in NBA, erano buone. Un 70% che lasciava presagire ad un’adattabilità quasi sicura tra i professionisti.
Avendolo visto finora sembra che Bennett fosse un Chris Bosh più forte nei pressi del ferro ma più debole da 3, ma ovviamente c’era anche il rovescio della medaglia.
La difesa, e più in generale il suo motor, era il suo tallone d’Achille. Riusciva ad essere efficace nelle stoppate per via della sua lunghezza di braccia, ma i suoi istinti difensivi erano praticamente nulli. A volte sembrava vagare nella sua metà campo senza una meta, ma soprattutto giocando col freno a mano tirato quando si trattava di difendere, che fossero le rotazioni difensive o addirittura le transizioni, dove rientrava in difesa davvero troppo lentamente:
La situazione non migliorava nella difesa in post, dove nonostante la buona core strenght mancava completamente in tutti i fondamentali, non riuscendo mai a tenere la posizione. Qui di seguito una compilation di errori difensivi in post:
Oltre a questo in generale non era un ottimo rimbalzista, proprio per una questione di impegno. In attacco era un rimbalzista nella media, facendo sempre affidamento sull’atletismo e sulla lunghezza delle braccia per poter concludere molti putback. Nella metacampo difensiva era tutta un’altra storia, l’impegno era zero e Bennett si produceva in amnesie totali a rimbalzo degne delle peggiori uscite di Andrea Bargnani:
In generale quindi abbiamo il ritratto di un prospetto con pregi e difetti piuttosto marcati. Ma se i difetti sembravano poter essere risolvibili con l’esperienza o più semplicemente un maggior impegno, i pregi componevano uno skillset assolutamente non comune per un ragazzo di quell’età, e che nascondevano un potenziale ancora maggiore. Vedendolo ora si poteva dire che il worst case scenario fosse appunto Bargnani, e il miglior scenario possibile quello di un Kevin Love più atletico ma peggiore a rimbalzo.
La scelta #1 quella notte fu una sorpresa perché come già detto Bennett non era reputato un prospetto da Top-3 proprio per queste red flag sul lato difensivo, ma la scelta non era campata per aria. I Cavs erano reduci da una stagione da 24 vittorie, e in quel momento il loro core giovane era composto da:
- Kyrie Irving, reduce dal Rookie dell’anno.
- Dion Waiters, che era considerato un ottimo prospetto come guardia e veniva da una stagione da rookie inefficiente ma con ottimi sprazzi.
- Tristan Thompson, canadese come Bennett e tuttora ai Cavs, ottimo prospetto come centro, una sorta di DeAndre Jordan in erba.
Vista la situazione sembrava insensato per i Cavs spendere la scelta per Noel, praticamente un doppione di Thompson. Come pure per un altra point guard molto simile ad Irving e Waiters come Burke. Quindi la scelta era sostanzialmente tra Otto Porter Jr e Bennett. La scelta fu fatta in pieno stile Cleveland, ma con una particolarità. Il GM dell’epoca, Chris Grant, non era particolarmente convinto di Bennett e voleva Ben McLemore. Il proprietario, Dan Gilbert, voleva Victor Oladipo. Si andò quindi ad una votazione interna tra lo staff il giorno prima del draft. Bennett vinse 9 a 1, chi era quell’uno? Il GM, Chris Grant. Lo staff di Cleveland scommetteva sul potenziale del ragazzo e sulle qualità mostrate al college, miste soprattutto ad una work ethic che sembrava forte.
A livello posizionale erano intrigati dalle potenzialità di un duo Bennett- Thompson, con uno capace di allargare il campo con il tiro e l’altro libero di banchettare nel pitturato. Cleveland quindi scelse il ragazzo di Toronto ed il resto è storia recente.
Qual è stata però questa storia recente?
L’origine del male fu il training camp, dove Anthony Bennett si presentò sovrappeso di 7 kili e mostrò più volte allo staff dei Cavs che non aveva molta voglia di allenarsi. Come spiegato fino ad adesso la narrativa di Bennett era stata quello di un ragazzo vincente e numero 1 in qualsiasi contesto mettesse piede, e non si aspettava tanto diversamente nell’NBA. Questo suo modo di pensare non poteva che essere deleterio, e infatti già dai primi allenamenti era palese che Bennett fosse completamente fuori forma. Il cestista canadese dopo qualche possesso era già a corto di fiato e questo problema non si sarebbe mai risolto in tutta la stagione.
La stagione da rookie di Anthony Bennett è senza alcun dubbio la peggiore della storia di una scelta numero 1 al Draft NBA. Il tiro che lo aveva reso un prospetto importante era diventato la sua rovina, la sua stagione inizia con un incredibile 0/16 al tiro, mettendo a referto punti dal campo solamente alla quinta partita, con una tripla contro Milwaukee:
“Il problema di Anthony era, e non avevamo modo di saperlo all’epoca, che non aveva alcun desiderio di reagire alle difficoltà. Appena si è fatta dura, non c’era più mentalmente. Tutta la sua vita si è svegliato la mattina con la consapevolezza di essere più grosso, più forte e più talentuoso di chiunque altro. Appena le cose sono andate per il verso sbagliato, per lui è stata la fine.”
David Griffin
Il primo mese di Anthony Bennett aveva portato ai fischi della Quicken Loans Arena e a sempre meno minuti in campo. Mike Brown provò di tutto per farlo acclimatare in campo, che fosse metterlo ala grande o ala piccola o dei periodi di permesso per farlo riprendere mentalmente. Fu tutto inutile, i problemi di Bennett partivano dal fisico e sono visibili in alcuni dei suoi infamous 16 tiri, per esempio questo:
Visibilmente ingrassato, l’esplosività del college si era dimezzata, praticamente Bennett era diventato come Big Baby Davis, ma incapace di segnare. E la stagione finì com’era iniziata, in maniera disastrosa. Le medie furono imbarazzanti per una prima scelta, 4 punti e 3 rimbalzi a partita, con il 35% dal campo e il 24% da 3.

Nonostante ciò, Bennett è stato di una qualche utilità alla franchigia dell’Ohio, essendo stato inserito nella trade che ha portato Kevin Love ai Cavs e poi al titolo NBA. A Minnesota la carriera di Bennett continuò nella sua discesa e il successivo passaggio alla franchigia della sua città nativa, Toronto, non portò la rinascita sperata. Il tiro continuava a latitare, addirittura nella breve stint a Toronto tirò col 29% dal campo e il 21% da 3.
Nel 2016 fu firmato al minimo dai Brooklyn Nets in quella fase in cui provavano a rimettere in sesto tutte le scommesse perse dalle altre squadre negli anni precedenti. Ad oggi è stata l’ultima apparizione di Anthony Bennett sui parquet NBA. Di lì in poi avrebbe calcato per pochissimo tempo i campi del Fenerbahce, giocando poco e male ma mettendosi in bacheca un’Eurolega. La sua carriera in sostanza sembrava agli sgoccioli fino al ritorno in America, ma in questo caso nella G-League.
Non era la prima volta che Anthony Bennett calcava i campi della G-League, nel 2015 era diventato la prima scelta numero 1 al draft a giocare in G-League, un record di cui non penso sia molto orgoglioso. Ha avuto una buona prima stagione, passata tra i Maine Red Claws e i Northern Arizona Suns, chiusa con 14 punti, 7 rimbalzi, 2 assist e una rubata di media in 26 minuti. Visti i progressi ha ricevuto quindi la chiamata degli Agua Caliente Clippers dove ha dato seguito ai progressi dell’anno prima con un’ottima stagione.
La pigrizia degli esordi sembra essere stata superata. Bennett non si prende più le pause mentali che era solito prendersi al college, e in attacco sembra estremamente migliorato nel gioco in post, da cui ora riesce a giocare meglio sia nei movimenti come il gancio sia come passatore.
Oltre i miglioramenti a livello di presenza in campo, aiutati anche dal recupero del tono atletico e dell’esplosività vista ad UNLV, Bennett ha recuperato pienamente il tiro, chiudendo la stagione con il 54% dal campo e un assurdo 45% da 3, validi per un 72% di True Shooting Percentage e un 22 positivo di Net rating. A livello statistico di base a prima vista niente di particolare, visto che ha tenuto medie di 12 punti, 5 rimbalzi, 1 assist e 1 rubata. Saltano all’occhio i minuti giocati, 20 a partita, che proietterebbero le sue cifre a 21 punti, 8 rimbalzi, 2 assist, 2 rubate e 1 stoppata a partita.
Ovviamente bisogna tenere conto anche del livello della competizione della G-League, non esattamente l’élite del basket. Non si deve però sottovalutare la sempre maggiore competitività della lega di sviluppo della NBA che negli ultimi anni ha fornito (o meglio, restituito) validissimi giocatori alle franchigie della lega di basket americana.
Bennett sembrava quindi pronto al salto più grande, quello del ritorno in NBA anche solo come giocatore di rotazione. Viste le capacità al tiro non stupisce che a dargli una nuova chance siano stati i Rockets, con Daryl Morey pronto giustamente a scommettere su un lungo con buona mobilità e tiro da 3, perfetto come role player nella Moreyball. In generale la stessa NBA di oggi sembra un posto migliore per un giocatore con lo skillset di Bennett, sicuramente molto più di sei anni fa.
Purtroppo la narrativa di Bennett ha subito un nuovo, brusco, stop. Durante il training camp sono emersi problemi al tendine del ginocchio sinistro che l’hanno forzato ad un operazione che lo terrà lontano dai campi per un paio di mesi. L’infortunio ha causato il taglio dei Rockets e la fine dei sogni NBA di Anthony, per ora.
La storia di Anthony Bennett deve essere un monito per tutti quegli addetti ai lavori e non che provano a santificare ragazzini di 20 anni, per poi ucciderli alle prime difficoltà. Non tutta l’NBA è rose e fiori o personaggi con la “Mamba Mentality”, come nella società i più deboli mentalmente restano indietro. E un ragazzo costretto per anni a leggere prese in giro e insulti su qualsiasi media possibile e immaginabile non ha fatto altro che finire in un buco nero da cui non si vedeva l’uscita. Sembra assurdo pensarlo, dato che sono passati tanti anni, ma Bennett ha ancora 26 anni!
L’augurio è che una volta recuperato dall’infortunio qualche altra franchigia NBA possa dargli una nuova chance per mostrare finalmente cosa sa fare, e che il buco nero diventi almeno una piccola stella.