Io sarò di parte scrivendo di Luol, non può essere altrimenti. Se qualcuno domani mi venisse a chiedere:
«Senti, io dovrei fermare Kawhi Leonard, tu chi mi consigli?»
«Bang, bang, bang… »
«Ma non è più quello di Chicago da anni!»
«… Luol…»
«E poi si è ritirato l’altro giorno!»
«…Deeeng!»
Ecco, questo è esattamente quanto sarò di parte. E, aggiungo, per fortuna che è così! Luol Deng è uno di quegli sportivi che incroci quando stai diventando grande e che ti porti sempre dentro, perché con le loro vicissitudini sono stati una palestra in cui allenare le proprie emozioni senza ripercussioni, mentre la “vita vera” va avanti su un binario separato e sicuro. Talvolta questi binari si intersecano e a me piace pensare non sia per caso, quindi non provate a farmi cambiare idea perché non vi darò ascolto.
Avevo una ragazza l’ultimo anno di liceo che sarebbe partita per studiare negli USA. Per quanto adesso mi sembri evidente che la cosa non potesse andare avanti, io, armato dell’amore e dell’ostinazione che mi avevano insegnato Derrick Rose e Joakim Noah, tutte le volte che mi perdevo nei suoi occhi blu – a dirla tutta un po’ perplessi – riemergevo con la convinzione che in qualche modo invece saremmo andati avanti. Il giorno in cui dovevo accompagnarla in aeroporto dopo le vacanze natalizie sapendo che non ci saremmo visti fino all’estate successiva, mi alzai e la prima cosa che vidi accendendo il telefono fu che avevamo scambiato Luol Deng.
È stato come se l’inevitabile mi piombasse addosso tutto in una volta, ma era la lezione che mi serviva. Luol per me ha sempre rappresentato il necessario contrappeso che, senza farsi notare, era lì a bilanciare gli estremi che raggiungevano Joakim e Derrick. Lo stesso fece per me quel giorno di inizio gennaio: pur passando in secondo piano rispetto alle mie vicende personali, mi aiutò ad aprire gli occhi ed a ritrovare l’equilibrio.

“Lo so che in molti dicono che questo è un lavoro, ma per me non è così. Io ci metto tutto me stesso, tutto quello che ho, e Luol è esattamente come me. Non ce l’ho con la dirigenza, non sono arrabbiato con nessuno, però questo è il mio punto di vista… è solo che lui è mio fratello e adesso non è più qui, mi serve tempo metabolizzare la cosa.“
Così parlava Joakim Noah dopo una settimana di silenzio tombale iniziata nel momento in cui Deng era stato scambiato dai Bulls per un paio di scelte e spazio salariale. In effetti, Deng c’era sempre stato: era l’ultimo superstite dei “Baby Bulls” che tornarono ai playoffs per la prima volta dopo Jordan e si tolsero anche la soddisfazione di affondare gli Heat di Wade e Shaq. Non è mai stato l’uomo copertina ma era sempre lì a fare il suo lavoro, cosa che lo ha inizialmente fatto apprezzare meno di quanto meritasse al suo pubblico. Penso agli anni di Vinny Del Negro, quando se ne stava in angolo ad aspettare che D-Rose facesse qualcosa, qualunque cosa.
Eppure, quando il front office chiese a Derrick di salire con loro su un aereo per andare a convincere LeBron a giocare con i Bulls, lui si rifiutò in nome della sua fedeltà a Luol Deng. Anche Kobe, qualche anno prima, aveva posto come unica condizione per uno scambio che lo avrebbe portato a Chicago il fatto che Deng non facesse parte del pacchetto offerto dai Bulls; richiesta che ovviamente i Lakers usarono a proprio favore per guadagnare tempo, far saltare la trade e rinnovare Bryant.
Rimase fuori dalla leggendaria serie dei Playoffs 2009 contro i Celtics per una frattura da stress, che causò grossi malintesi sia con la dirigenza che con i tifosi, perché il dolore c’era ma capirne la fonte fu impresa più ardua del dovuto. Tifosi a cui vorrei chiedere come potessero anche solo immaginare che una persona come Luol Deng fosse soft. Deng è di etnia Dinka, è nato nel Sudan del Sud ed è stato rifugiato prima in Egitto e poi in Gran Bretagna dopo che il padre, un diplomatico, era finito dalla parte sbagliata di un colpo di stato. I Dinka sono fra le persone più alte del mondo, e fu proprio un altro Dinka, il compianto Manute Bol, ad indirizzare Deng verso la pallacanestro.
A differenza di Bol, che sembrava quasi pericolante sulle lunghissime gambe, Deng ha sempre avuto un portamento che trasmetteva la primordiale nobiltà del suo popolo: una fisicità differente, potente ed esplosiva al pari dei colleghi americani ma espressa in modo quasi solenne e senza alcuna frenesia.

È anche per via di questa particolarità che con l’arrivo di Tom Thibodeau a Chicago la sua carriera è decollata fino a portarlo a due All-Star Game consecutivi. “Do your job” era il mantra ripetuto ossessivamente dal coach, e nessuno aveva un job più arduo di Deng: sempre intorno a quaranta minuti a sera – e ben oltre nelle partite che contavano-, marcando il migliore degli altri su un lato del campo e secondo miglior realizzatore dopo D-Rose sull’altro lato. Nella storica Gara-4 contro i Nets, quella in cui Nate Robinson si inventò un quarto che non si vedeva dai tempi di MJ per mandarla al supplementare, Deng giocò addirittura più di sessanta minuti; prese la febbre e fu costretto a guardare il resto dei Playoffs 2013 dall’ospedale per via di complicazioni mai ben chiarite.

Furono gli ultimi playoffs giocati a Chicago. Quel giorno di inizio gennaio i Bulls, apparentemente lontani dalla corsa ai primi posti, decisero di cogliere al volo l’occasione di liberarsi del suo contratto in scadenza e lo spedirono a Cleveland. Chissà, forse speravano anche di arrivare a una scelta più alta al draft. Una scelta logica, tutto sommato.
Scelta non condivisa però da Joakim Noah, che dopo quel silenzio durato una settimana e una lunga dichiarazione d’amore a suo fratello Luol, alla squadra e alla città, sentenziò: “There is no tanking”. Da solo riportò i Bulls fino al quarto posto giocando una seconda parte di stagione che lo proiettò nella MVP conversation (4° per numero di voti) e gli valse il Defensive Player Of The Year Award; ma il giorno in cui se ne era andato Luol Deng aveva già sancito l’inizio della fine di quei Bulls, a testimonianza del ruolo fondamentale che ricopriva e della imprevista difficoltà nel trovare un degno erede.

L’estate dopo venne assoldato per rimediare alla nostalgia di casa di LeBron da Pat Riley, che con Miami si era spesso trovato di fronte il miglior Deng. Dall’upset dei Playoffs 2007 contro gli Heat campioni in carica – in cui fu miglior realizzatore (26,3 PPG!) e rimbalzista di entrambe le squadre -, fino al 27 Marzo 2013, in cui guidò i Bulls senza Rose e Noah alla vittoria che fermò la storica striscia di vittorie di Miami a ventisette, passando per i due game winner della stagione 2011. A Miami Deng fu protagonista di una breve ma intensa cavalcata ai playoffs nel 2016, conclusasi in gara-7 contro Toronto dopo aver eliminato Charlotte, sempre in sette partite, al primo turno.
Le ultime stagioni con i Lakers non sono andate come sperava dopo aver firmato un contratto esagerato per la sua età (72 milioni in 4 anni, buon per lui ma grosso errore di Kupchak) fra infortuni e malintesi con la nuova dirigenza. L’anno scorso Thibodeau lo ha fatto aggregare ai T’Wolves, dove ha avuto l’occasione di mostrarsi ancora in grado di stare in campo prima di decidere di ritirarsi con quella che considera la squadra della sua vita.
L’ultima volta che è passato da Chicago come giocatore in attività, queste sono state le sue parole: “Qualunque cosa faccia nella mia carriera, credo che sarò sempre un Bull“. Un Bull di cui andare fieri anche fuori dal campo, perché nella storia della franchigia nessuno ha ricevuto più riconoscimenti per il proprio servizio alla comunità, un impegno profuso senza sosta sia a Chicago che in Inghilterra e nel suo Sudan del Sud. Ma per raccontarvi questo lato di Luol Deng, che senza dubbio sovrasta la sua seppur grande carriera nel basket, servirebbero davvero troppe parole.
