Ho sempre avuto un debole per i giocatori con nomi particolari. In NBA non mancano mai, anzi. Un giorno sarebbe bello metterli qui in fila in una classifica. Personalmente adoravo JaKarr Sampson e non ebbi dubbio alcuno – ahimè – su Markelle Fultz. Figuratevi quando ho sentito parlare di Matisse Thybulle. Sembra che il padre, in viaggio a Parigi, venne colpito da una sorta di sindrome di Stendhal, così di ritorno in patria, al momento di sfornare eredi, la scelta fu scontata. Poteva andargli peggio, al pargolo.
Si dice che i nomi influenzino le attitudini personali, e in effetti Matisse ha sviluppato un certo senso artistico, declinato però al servizio della palla a spicchi. La sua arte si esprime su tela, quella con cui avvolge gli avversari, con la quale asfissia gli attaccanti, costringendoli spesso all’errore, alla palla persa, alla giocata avventata. Quando il giovin Thybulle cominciò ad innamorarsi della pallacanestro – e non fu a prima vista – capì fin da subito che la sua dimensione di giocatore si esprimeva meglio nella fase difensiva. Non nel bruciare retine, tirare come non ci fosse un domani. No. Meglio difendere la base, proteggere la tana, senza aspettare però, senza subire, ma al contrario aggredire, sabotare, infastidire. Mani veloci, costante movimento. Un falco in perlustrazione continua.
Come college sceglie la per lui locale Washington, Pac-12. Non è un five-star, ma uno specialista. Un allievo in cerca di maestri, un personaggio in cerca d’autore, un giocatore che non ha fretta di bruciare le tappe. La Lega ed il professionismo sono un obiettivo, non un’ossessione. Gli Huskies di Lorenzo Romar gli calzano a pennello: adottano la zona integrale e Matisse si cala perfettamente nel contesto.
Lui, 1.95 di lunghe leve e apertura alare di oltre 2.10, tende ad essere ancora più veloce che coordinato, un atleta da sgrezzare, non un cestista fatto e finito. Saranno quattro anni in crescendo, anni nei quali Thybulle scalerà le graduatorie interne per affacciarsi da protagonista nella squadra, nella Conference e oltre. Stagioni nelle quali frantumerà record, quello annuale di rubate nella Pac-12, detenuto da Jason Kidd, quello all-time stabilito da Gary Payton. Due nomi ai quali Matisse prova un certo pudore nell’accostarsi. Due marziani del gioco, per lui, al momento, semplice aspirante astronauta.
Chiude il suo anno da senior con 3.5 recuperi e 2.3 stoppate di media, numeri che presi così, fuori contesto, potrebbero sembrare aridi, ma che sono invece eccezionali se combinati tra loro e associati al ruolo del giocatore. Matisse timbra un egregio 85% dalla lunetta, regredendo invece ad un mediocre 30.5% da tre, che va a macchiare un discreto 35.8% in carriera al college, che diventa però un interessante 38% se si esclude proprio l’ultimo anno. Un prototipo di 3-and-D sembra stagliarsi all’orizzonte.
Ed è questo tipo di giocatore che Elton Brand, Brett Brown e il loro staff credono di individuare nel prospetto di Washington. Frutto apparentemente di uno scouting che parte da lontano – già dai tempi di Fultz nella stessa Alma Mater – che si è via via arricchito di contatti e visioni pre-draft. Elton e Coach Brown devono aver visto un certo non-so-che, un quid, per arrischiarsi a scendere di nuovo a patti col “diavolo” Danny Ainge e scambiare ancora scelte con i Celtics, per accaparrarsi un Husky.
Errare è umano, la perseveranza sarebbe ingiustificabile. È così che Boston lo chiama alla 20 per girarlo a Phila in cambio della 24 e della 33. La trade resterà sub-iudice negli anni a venire. La sera del draft Matisse indossa una giacca scintillante e sfoggia un sorriso smagliante – marchio di fabbrica del ragazzo – che s’incrinerà solo alla prima intervista, mentre dedica il momento al ricordo della madre prematuramente scomparsa, quattro anni fa.
La ruota gira veloce quando sali sull’ottovolante NBA. I media ti assediano, i tifosi s’interrogano, un niente ed è già Summer League. Una competizione che forse non si addice propriamente ad uno specialista difensivo. Lì prospetti e journeymen si sfidano alla morte per un posto al sole, ogni azione è una sfida all’O.K. Corral. Matisse deve aggiustare il passo e mostra notevoli lacune in attacco, soprattutto nel creare con la palla in mano. Niente di nuovo, ma tanto lavoro resta da fare. In difesa eccelle e le triple entrano con discreta continuità: so far, so good.
E si arriva al training camp e alle prime uscite stagionali. Chi ha avuto modo di vederlo in allenamento ne resta colpito per l’applicazione difensiva e per l’inesauribile dinamo. Ben Simmons, accoppiato spesso con lui negli scrimmage, dice benevolmente di “odiarlo”. Il cuore di Brett si scalda. E così, Matisse il ragno, sembra al momento scalare posizioni nella serrata competizione tra gli elementi della second unit. C’è fiducia attorno a lui, le sue risposte ad oggi adeguate.
Nelle quattro partite pre-stagionali fin qui disputate, in poco meno di 80 minuti totali di gioco, il rookie ha già collezionato 12 rubate e 6 stoppate. Sulle ali dell’entusiasmo e spinto dallo staff tecnico di Phila, cerca in continuazione di alterare le linee di passaggio e di accumulare deflections. Ovviamente questo tende ad andare a discapito del giusto posizionamento difensivo e la troppa foga lo porta a perdersi qualche giocata. Dall’altro lato, la stoppata in recupero difensivo sembra essere diventata una sua signature move.
Se il buon giorno, come al solito, si vede dal mattino, Thybulle potrebbe ritagliarsi minuti già da settimo od ottavo uomo. Non male, in considerazione della rinnovata line-up dei Sixers e delle potenzialità in uscita del pino. Ma, più che al buon giorno, siamo ancora all’alba della carriera di Matisse, in quella sorta di twilight zone dove tante cose possono accadere, dove si fatica a distinguere il vero dal falso, l’opera d’arte dalla banale imitazione. E ci mancherebbe che con quel nome, il nostro, si metta a rifilar croste. Almeno speriamo.