Finalmente, l’attesa è terminata: le Washington Mystics, al secondo tentativo dopo lo sweep nelle Finals dell’anno passato, hanno vinto il loro primo titolo WNBA, esorcizzando la maledizione che sembrava attanagliare la loro storia ma anche la splendida carriera di Elena Delle Donne.
Il titolo di Most Valuable Player della serie finale contro le ottime Connecticut Sun, per la terza volta perdenti davanti alla possibilità di vincere l’anello, è andato alla belga Emma Meesseman. Il suo ritorno in campo, dopo aver saltato la scorsa stagione per poter partecipare con la sua nazionale ai Mondiali FIBA (ma anche per motivazioni personali), ha reso la squadra della capitale americana la squadra schiacciasassi che il GM e allenatore Mike Thibault ha voluto costruire con un piano minuzioso e perfetto di rebuilding del roster a partire dal 2016.

(foto di Ned Dishman/NBAE via Getty Images)
Il punteggio finale, 89 a 78 nella conclusiva gara 5, racconta già da sé un percorso tortuoso e lungo il quale le Mystics hanno dovuto combattere e prevalere mostrando tutto il loro carattere contro un avversario di assoluto livello.
“Penso di aver fatto incazzare gli dei del basket quando ho deciso di fare il salto dal college” ha dichiarato durante la premiazione EDD, che nonostante tre ernie al disco e Gara 2 durata appena tre minuti, ha trascinato, da stella assoluta qual è, le sue compagne di squadra, chiudendo con quasi 17 punti e 7,5 rimbalzi di media. Una versione insomma più vicina agli esseri umani di quella macchina perfetta che è stata in Regular Season, che le è valsa il secondo MVP della stagione regolare: 19,5+8,3 col 51,5% dal campo, 43% da tre e un più che fantascientifico 97,4% dalla lunetta, prima donna nel 50-40-90 club.
Quello che i numeri delle Finals non raccontano però è come abbia difeso su Jonquel Jones, la pivot e probabilmente giocatrice di maggior talento delle Sun assieme ad Alyssa Thomas, costringendola poi sull’altra metà campo a fare gli straordinari in isolamento, attaccandola sia fronte a canestro che in post. Gara 5 è svoltata proprio col fischio del quarto fallo ai danni di Jones a metà terzo quarto, con le Mystics sotto di 9: da quel momento è venuto fuori il repertorio finissimo di Meesseman, o, come la incoraggiavano i tifosi in un’arena completamente esaurita, Playoff Emma.
L’altro coro che è risuonato fortissimo per tutto il corso della stagione, fino all’ultimo minuto di Gara 5, è stato “Run it Back“: la voglia di rivalsa e di riscatto dopo la bruciante sconfitta alle scorse Finali è stata la benzina per una squadra che ha costruito il proprio successo su un percorso di crescita collettiva da incorniciare, leccandosi le ferite, ma sempre a testa alta.
I fili che intrecciandosi hanno disegnato questo risultato sono tanti, ed è difficile sciogliere tutti i nodi per analizzarne uno alla volta.
UN ASSEMBLAGGIO MINUZIOSO
Dopo tre uscite al primo turno consecutive, Mike Thibault sapeva che c’era qualcosa da cambiare. Arrivato a Washington D.C. nel 2013, dopo dieci anni passati ad allenare proprio le Connecticut Sun, era già uno dei più grandi allenatori della storia della WNBA: la sua carta d’identità recitava allora due volte COY e secondo nella storia della WNBA per vittorie totali. L’impatto nella capitale, immediato e ottimo (le Mystics non apparivano ai Play-off dal 2004), non era comunque abbastanza per uno con la sua ambizione.
Studente del leggendario John Wooden, il coach più vincente della storia dell’NCAA, 10 titoli in 12 anni, ha un pedigree che dimostra la sua costante voglia di miglioramento, dalle esperienze come assistant coach e scout ai Lakers, passando per quattro anni ai Bulls, fino a un’altra corposa esperienza in NBA, ai Milwaukee Bucks a cavallo del nuovo millennio, nonché con la Nazionale maschile.
La ricetta per un roster vincente, secondo Mike, non è un segreto: accumulare talento, migliorare collettivamente le proprie capacità e fornire lo scheletro tattico ideale per l’espressione delle stesse. “Gli allenatori che pensano che vinceranno grazie al loro allenamento, sono fuori di testa” – ha dichiarato con umiltà -“il tuo scopo come allenatore è quello di migliorare i buoni giocatori che hai a disposizione“. Più complesso, secondo lui, mantenere la calma e riuscire a trasmettere fiducia, capire i momenti giusti dove intervenire e quando lasciare le briglie sciolte.
Come GM, nel 2016 ha deciso di iniziare un processo di rebuilding che ha portato le Mystics, in due anni, ad avere il roster più forte della lega, al costo di un record perdente e un anno fuori dai Play-offs, evento avvenuto solo per la terza volta nella sua carriera. L’aver avuto quindi in mano asset di assoluto valore, come la seconda scelta al Draft 2017, ha permesso alla squadra della capitale di aggiudicarsi via trade Elena Delle Donne, che a Chicago era in procinto di diventare RFA. Nel frattempo, la lungimiranza e l’attesa della realizzazione del talento di alcune scommesse, come Natasha Cloud ed Emma Meesseman, entrambe pescate al secondo giro dei rispettivi draft (2015 e 2013), ha definito una corazzata, finalmente pronta per vincere il titolo.
Il suo volto, solitamente impassibile e fermo, che tradisce le emozioni e le preoccupazioni seguenti all’infortunio di EDD in Gara 2, mostrano appieno la sua grandezza umana e quanto ha dato nel suo lavoro come allenatore:
Adesso, da allenatore più vincente della storia della WNBA, unico sopra le 300 wins, con sul suo petto un altro premio di COY e finalmente il titolo, ha chiuso perfettamente il cerchio iniziato a disegnare anni fa, ma la sua voglia di scrivere la storia non è ancora finita.
ELENA: LA CILIEGINA SULLA TORTA
Elena Delle Donne è la cestista più forte al mondo e una delle più forti di sempre. Il suo palmarès, tre ori con la Nazionale, due MVP in Regular Season, sei chiamate al WNBA All-Star in sette anni di carriera, quattro All-WNBA First Team, nonché il premio di Rookie of the Year, ora si è impreziosito dell’ultimo tassello mancante, il titolo.
Nel suo caso, parlare di maledizione per gli infortuni significa forse effettuare una sottostima: l’anno scorso ebbe una contusione al ginocchio durante le Semifinali; a Chicago nel 2014 giocò le Finals stoicamente nonostante un bruttissimo infortunio alla schiena a seguito di uno scontro di gioco sotto canestro. Nel corso della stagione regolare del 2014 invece fu colpita dalla rara malattia di Lyme, e per il suo impegno nel far conoscere la patologia fu insignita di un premio di riconoscenza.
Un cristallo, che rivela in realtà la sua forza di volontà, impareggiabile. Come quando decise, dopo appena due giorni a UConn, da miglior prospetto nazionale, di abbandonare il programma scolastico, perdendo un anno di basket, per stare vicina alla sorella Lizzie, che, nata sorda e cieca e con disturbi di autismo e paralisi cerebrale, rimane sempre la sua roccia.
“Lizzie è sempre stata la mia ispirazione: i miei infortuni non sono nulla rispetto a quello che lei ha sofferto, eppure è sempre sorridente, ride, ama”. Vederla sollevare il titolo, sapendo quello che ha passato, non può non commuovere:
LO STATO DELL’ARTE
La fine di questa stagione non può che portare a fare riflessioni sulla crescita del basket femminile e su quali siano ancora i campi dove si può e si deve fare di più. L’aumento del pubblico, grazie anche al nuovo accordo con la CBS oltre a quello già esistente con ESPN, è molto promettente: i dati parlano di oltre quattrocento mila spettatori per partita in Regular Season (poco meno di un terzo rispetto ai colleghi maschi), il 63% in più rispetto all’anno passato e picchi ancora più alti proprio per queste Finals.
Di contraltare, i palazzetti sono ormai inadeguati allo share e alla giusta visibilità che lo sport merita: l’Entertainment and Sports Arena di Washington D.C., sempre tutta esaurita in queste Finali, consta di appena 4200 posti, pochissimi per il palcoscenico più alto dello sport. Probabilmente da questo punto di vista bisognerebbe perseguire la strada che squadre come Los Angeles Sparks e Phoenix Mercury, non a caso le uniche due quest’anno con media di spettatori superiore alle diecimila presenze a partita, hanno tracciato: giocare nelle arene usate dai colleghi della NBA, nel caso specifico lo Staples Center e la Talking Stick Resort Arena.
Il pay gap è e rimane una questione chiave: il salario massimo per le giocatrici in WNBA è pari a 117.500 dollari, e nel frattempo Damian Lillard ha firmato un contratto che gli garantirà in media 50 milioni l’anno per i prossimi cinque. L’argomentazione che deve essere soltanto la capacità di generare entrate da parte della lega a determinare lo stipendio non può e non deve durare a lungo: Elena, Emma e le loro colleghe sono la massima espressione atletica e tecnica nel loro settore, eppure possono aspirare a guadagnare al massimo cinque volte meno di un collega maschio firmato al minimo.
Per come è attualmente strutturato il CBA, il monte salari totale delle giocatrici costituisce appena il 20% del revenue share, mentre nell’NBA la percentuale è del 50%: se è irrealistico parlare di stessi stipendi (l’NBA vale sette miliardi, la WNBA 60 milioni) è sacrosanto rivendicare che la stessa percentuale delle entrate venga ridistribuita sul monte salari.
La Word Surf League da quest’anno è diventata la prima lega di sport negli Stati Uniti ad introdurre la parità nei monte premi per le competizioni maschili e femminili: è troppo presto per parlare di effetto domino, ma finalmente dopo decenni di soffocamento la polvere non potrà più essere nascosta sotto il tappeto. Chissà se la concomitanza delle rivendicazioni da questo punto di vista con altri sport, come il calcio, unito all’aumento di potere contrattuale della WNBPA (la Women’s National Basketball Players Association), non possa portare a passi in avanti verso sistemi di retribuzione più giusti.
Di certo c’è che il CBA è in discussione, e anche giocatrici che purtroppo non ne vedranno gli effetti, come Sue Bird, stanno alzando la voce: le questioni meramente salariali si legano con questioni di sicurezza, salute e qualità della vita, come le facilities spesso non all’altezza (l’agente di Elena Delle Donne ha raccontato di giocatrici infortunate costrette a fare bagni col ghiaccio in bidoni usati per la spazzatura) o l’annosa questione sui voli charter, finora ignoti alle professioniste del basket. Il pane e le rose.