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Le domande che definiranno la stagione NBA 2019/20

Lorenzo Olivieri by Lorenzo Olivieri
25 Ottobre, 2019
Reading Time: 18 mins read
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Domande stagione

Copertina a cura di Alessandro Cardona

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La stagione NBA che sta per iniziare si presenta come una delle più equilibrate nella storia recente della lega. Per la prima volta in molti anni non c’è una netta favorita per il titolo, né si può considerare una corsa a due come accadeva con Warriors e Cavaliers.

L’equilibrio, si sa, porta curiosità, e la curiosità porta a porsi delle domande, su cui è bello poi ragionare. Vediamo quindi alcuni di quelli che, secondo chi scrive, potrebbero essere fra i quesiti più interessanti a cui la prossima stagione potrebbe rispondere.

1) Sono ancora gli Warriors dei vostri padri?

Dopo la débâcle delle scorse Finals, la dinastia degli Warriors, per come l’abbiamo conosciuta finora, è giunta ufficialmente al termine. La squadra di Steve Kerr è profondamente diversa da quella vista fino alla passata stagione, e dalla sconfitta ne è uscita pesantemente ridimensionata, sia per talento che per aspettative. Talmente ridimensionata che in molti hanno iniziato a mettere in discussione la possibilità che i Guerrieri della Baia possano raggiungere la post season.

Kevin Durant si è accasato ai Nets, formando un nuovo dynamic duo in divenire con Kyrie Irving; Iguodala è stato usato sostanzialmente per fare salary dump, e spedito ai Grizzlies; Klay Thompson, il numero due degli Splash Brothers, ha lasciato il suo legamento crociato sul parquet nelle scorse Finals, e non tornerà in campo (ammesso che lo faccia nel ’19-‘20) prima della prossima primavera.

Queste tre situazioni delineano un quadro non proprio roseo per Golden State, considerando che tre dei più importanti pezzi del puzzle gialloblu non ci saranno la prossima stagione.

È anche vero che Bob Myers e tutta la dirigenza Warriors ha fatto un ottimo lavoro per cercare di mantenere la squadra competitiva, aggiungendo del talento giovane e – sulla carta – funzionale in D’Angelo Russell e Willie Cauley-Stein.

I dubbi tuttavia rimangono, e riguardano soprattutto la metà campo difensiva, perché per quanto l’impatto di Durant e Thompson fosse importante anche in fase d’attacco, è dall’altra parte che l’assenza dei tre nomi già citati si farà sentire parecchio. KD, Klay e Iggy erano tre dei migliori e più versatili difensori a disposizione di Kerr. Iguodala è stato impiegato costantemente da LeBron-stopper negli anni della faida con i Cavaliers, con ottimi risultati, mentre Thompson e Durant regalavano al quintetto base di Golden State una versatilità senza pari, consentendogli di cambiare su ogni blocco senza mai concedere mismatch.

Questa è una perdita che nessuno dei nuovi arrivi sarà in grado di colmare, al netto delle discrete capacità da intimidatore di Cauley-Stein, e Kerr sarà chiamato a tirar fuori il proverbiale coniglio dal cilindro. Sarà incredibilmente difficile non andare sotto difensivamente schierando un backcourt Curry-Russell.

Detto questo, però, non bisogna dimenticarsi che gli Warriors hanno ancora a roster il giocatore che ha definito questa generazione, Steph Curry, oltre al suo compagno Draymond Green. Offensivamente le possibilità restano molte, con due creatori come Steph e D-Lo, e due ottimi esecutori del pick and roll come Green e WCS. Verosimilmente il salto di qualità lo faranno fare le seconde linee, mai come quest’anno ai minimi storici per talento. Se i vari Looney, Lee, McKinnie, ma anche i nuovi arrivi come Burks e Glenn Robinson III saranno in grado di fornire la difesa e i punti di cui Golden State ha disperatamente bisogno, allora gli Warriors resteranno una squadra temibile. Sul fatto che centreranno la post season, chi scrive non ha alcun dubbio. Resta solo da vedere in quale posizione.

2) Dove possono arrivare gli Houston Rockets?

Nonostante l’annata storica di James Harden, la sensazione diffusa è che i Rockets siano stati una delle squadre più deludenti della passata stagione. Pur avendo impensierito gli Warriors in semifinale, non sono mai sembrati la schiacciasassi dell’anno prima. Ad aggravare le cose, in estate sono arrivate voci che volevano un Chris Paul scontento all’interno dello spogliatoio, voci che poi sono sublimate nella trade che ha riunito una vecchia coppia di amici, Russell Westbrook e James Harden, spedendo CP3 ai Thunder.

Diciamo che, posizione per posizione, i Rockets sono sostanzialmente gli stessi della passata stagione, solo un anno più vecchi. Hanno mantenuto tutti i tasselli più importanti in Clint Capela, Eric Gordon, PJ Tucker, Austin Rivers e naturalmente James Harden; hanno sostituito Paul con Russell Westbrook, hanno aggiunto un’àncora difensiva come Tyson Chandler e hanno avuto un ritorno di fiamma con Ryan Anderson. Nel loro modo di giocare e nella loro profondità, quindi, non cambia assolutamente nulla. Molti addetti ai lavori si chiedono ancora se Russ possa considerarsi un vero e proprio upgrade rispetto alla “Point God” Chris Paul. Se la convivenza di quest’ultimo con Harden è stata complessa, non ci sono molti motivi per credere che Westbrook sia la soluzione al problema.

Nonostante si sia vociferato in estate di una possibile nuova mossa segreta messa a punto da James Harden – in pieno stile shōnen manga – che potrebbe essere o non essere passi, è difficile immaginare che il Barba possa fare un ulteriore salto di qualità rispetto alla passata stagione. La stella di Houston ha già avuto un’annata con pochi altri precedenti nella storia dell’NBA, sia per qualità che per quantità, e sembra impossibile pensare di poter alzare ancora il livello. Magari alcune soluzioni tattiche diverse nell’utilizzo di The Beard potrebbero essere la chiave per sbloccare il potenziale di un roster già con tanto talento a disposizione.

La pensa ovviamente in maniera diversa Daryl Morey, GM dei Rockets, convinto che i suoi Razzi siano i favoriti per il primo posto ad Ovest, come ha dichiarato in un’intervista per lo Houston Chronicle. È chiaro che Morey non possa dire niente di diverso, ma d’altro canto è anche vero che la Western Conference, senza più lo spauracchio degli Warriors, è più che mai terra di nessuno, e i Rockets hanno sicuramente il talento e lo star power per poter puntare al first seed.

È senza dubbio difficile, quindi, fare previsioni su dove sarà Houston a fine stagione. Ai blocchi di partenza sembrano tanto una squadra da 43-45 vittorie quanto una da 55. “The writing’s on the wall” amava dire l’Avvocato quando commentava Harden. Mai come ora è “fear the beard” time.

3) Oltre a essere sexy, i Nets posso essere anche un top seed?

Ok, chi non prova un po’ di sana eccitazione per questi nuovi Brooklyn Nets? Ammettiamolo, sono maledettamente sexy.

Il restyling stilistico portato da Jay-Z e Beyoncé ormai diversi anni fa gioca un ruolo importante, ma è difficile trovare attraente una squadra che stagione dopo stagione raschia il fondo della lega. Dall’anno scorso però il lavoro certosino di rebuilding messo in moto dal GM Sean Marks ha iniziato a dare i suoi frutti: i Nets hanno centrato i playoff con un roster fatto di giovani giocatori con potenziale, guidati da D’Angelo Russell. È in estate però che la franchigia newyorkese ha aumentato il suo appeal a livelli probabilmente mai avuti prima.

Nonostante, secondo molti, dovesse essere finalmente l’estate dei Knicks, è stata invece la seconda franchigia della Grande Mela a reclamare per sé le luci della ribalta, firmando due dei più ambiti free agent disponibili sul mercato: Kyrie Irving e Kevin Durant, a cui si è aggiunto DeAndre Jordan.

Anche con KD in infermeria per tutta la stagione, i Nets sono diventati senza ombra di dubbio una delle squadre da tenere d’occhio a Est. Irving è, di fatto, un upgrade sotto tutti i punti di vista rispetto a Russell e, se deciderà di lasciarsi allenare dall’ottimo Kenny Atkinson, per lui si prospetta un’annata ricca di soddisfazioni sia personali che di squadra. Attorno a lui – e a KD, quando sarà il momento – i Nets hanno mantenuto (quasi) intatto lo young core che così bene ha fatto la scorsa stagione. Caris LeVert, Joe Harris, Rodions Kurucs e Jarrett Allen possono diventare tasselli importanti nel mosaico di una squadra che ambisce al titolo.

A tal proposito, fa un po’ storcere il naso la firma di DeAndre Jordan che, da quando ha lasciato i Clippers, sembra vivere una crisi d’amore verso il basket, e che rischia di chiudere spazio ad Allen, rallentandone lo sviluppo. A dispetto del suo look tipicamente ‘80s, il giovane lungo dei Nets aveva infatti mostrato il potenziale per rivestire il ruolo di perfetto lungo moderno, mettendo in evidenza lampi interessantissimi nella passata stagione (famosissima la stoppata “lebroniana” che ha riservato allo stesso LeBron James). Jordan e il suo contratto costringeranno probabilmente Atkinson a panchinare Allen, si spera senza troppe conseguenze per lui.

C’è anche la possibilità che Brooklyn schieri un quintetto altissimo con Allen da 4 e Jordan da 5, con Irving a inventare palla in mano e altri due tiratori ad allargare il campo, ma non assomiglia ad una soluzione sostenibile sul lungo periodo.

In generale, Brooklyn sembra essere una squadra con molte frecce in faretra. Con una batteria di tiratori invidiabile (arrivati anche Temple e Prince) attorno all’asse Irving-Jordan/Allen, pare abbiano davvero tutte le carte in regola per puntare ad essere testa di serie nei playoff a Est. Anche perché, con la “caduta” di Boston e Toronto, anche l’Est sembra più aperto che mai.

A tal proposito…

4) Può finalmente essere l’anno di Phila?

I Sixers sono, a conti fatti, l’unica contender della Eastern Conference a non essersi chiaramente indebolita rispetto all’anno scorso. Hanno perso Jimmy Butler e JJ Redick ma hanno acquisito Al Horford e Josh Richardson, diminuendo il loro potenziale offensivo ma costruendo, sulla carta, una difesa di ferro.

Liberatisi finalmente della telenovela Markelle Fultz, restano ancora da sciogliere i nodi del jumper di Ben Simmons (mai gesto tecnico fu più chiacchierato nella storia della NBA) e della condizione fisica di Joel Embiid, le due stelle indiscusse della squadra e chiaramente le pietre fondanti su cui i Sixers vogliono costruire il loro successo. Nessuna delle due è, peraltro, questione di secondaria importanza. Simmons ed Embiid sono chiaramente due talenti generazionali di tale portata, che ne basterebbe uno per gettare le fondamenta per una squadra da titolo. Averli entrambi a roster è grasso che cola. Il problema però, diventato sempre più evidente man mano che i due calcavano insieme il parquet, è che sembrano essere difficilmente compatibili da un punto di vista tecnico. La totale assenza di pericolosità perimetrale di Simmons lo costringe ad occupare una zona di campo già presidiata dal suo ingombrante compagno, con ripercussioni negative per entrambi e per tutta la squadra.

Se Simmons riuscisse a rendersi pericoloso anche lontano da canestro, i benefici per i Sixers sarebbero incommensurabili. Ecco perché The Prince è stato uno dei giocatori più scrutinati in questa off season, con manciate di video a testimoniare i presunti progressi fatti nel tiro da fuori. Ma i video delle partitelle estive, lo sappiamo, sono da prendere esclusivamente con le pinze, altrimenti Carmelo Anthony sarebbe fra i candidati al titolo di MVP ogni sacrosanta stagione.

Per Embiid la questione è paradossalmente al tempo stesso più semplice e più complessa. Il suo ruolo non gli richiede grossi passi in avanti dal punto di vista tecnico (anche se percentuali migliori da tre e migliori scelte offensive aiuterebbero parecchio), ma per i Sixers è fondamentale che la sua condizione fisica gli consenta di arrivare a maggio/giugno senza problemi fisici e con ancora carburante nel serbatoio.

Resta inoltre da verificare come Horford possa impattare la metà campo offensiva condividendo il parquet con Embiid. Questo è un interrogativo tattico pesante a cui Brett Brown dovrà trovare risposte convincenti.

Fatte queste premesse, però, è difficile non pensare a Phila come la netta favorita per il primo posto ad Est (nonostante le proiezioni W/L di Las Vegas diano ancora Milwaukee prima), considerando che i Raptors hanno perso Leonard, i Bucks Malcolm Brogdon e Boston la sua identità.

Il che ci porta alla prossima domanda.

5) Sarà la stagione della consacrazione per Kemba Walker?

Per il neo-acquisto dei Celtics, il contratto firmato in biancoverde assomiglia molto alla carta “esci gratis di prigione” del Monopoli. I suoi anni agli Hornets (già Bobcats) gli hanno regalato solo insuccessi, relegandolo in un ambiente disfunzionale, che non è mai stato in grado di metterlo nelle migliori condizioni per competere e per far fiorire tutto il suo talento.

Tutto ciò per fortuna sembra essere finito con la firma del contratto che lo lega ai Celtics. Nonostante Boston stessa sia in una fase di trasformazione dopo il fallimento di quello che doveva essere il gruppo del futuro, è indubbio che l’ambiente in Massachusetts sia molto più salubre che in Carolina. Brad Stevens ha tutti i numeri per riuscire a tirare fuori il meglio da un talento come Kemba Walker, così come aveva fatto con Isaiah Thomas alcune stagioni fa.

Se chiedete a cento addetti ai lavori se Walker sia un upgrade rispetto a Irving, almeno una novantina vi risponderà di no, ed è probabilmente vero. Se confrontiamo le due principali statistiche avanzate omnicomprensive – PIPM e Real Plus-Minus – dell’ultima stagione, Kyrie è nettamente avanti a Kemba (3.3 PIPM contro 2.2, 4.23 RPM contro 2.76). La differenza, però, la può fare la maggiore solidità mentale di Walker (aspetto in cui Irving ha fatto molto discutere nei suoi anni in biancoverde) e in generale la sua personalità. Se i titoli di NBA Sportsmanship of the Year possono dirci qualcosa, la pg ex-Hornets ne ha vinti due consecutivi nel 2017 e nel 2018, segno che Walker è un professionista disposto a mettere la squadra e i compagni al primo posto. Inoltre, per Stevens, Walker rappresenta un atleta sicuramente più facile da allenare e attorno a cui costruire un sistema offensivo funzionale.

Insomma, la leggenda di UConn, nel pieno del suo prime e reduce dalla migliore stagione statistica della sua carriera, ha davanti a sé l’occasione di una vita: quella di consacrarsi una volta per tutte come una delle migliori PG della lega in una franchigia storica, e di competere finalmente al livello che gli spetta.

6) Quanto sono sottovalutati gli Utah Jazz?

Molto, e molto poco. Entrambe le affermazioni sono vere. Sono sottovalutati se si considera quanto poco se ne parli e quanta poca attenzione mediatica abbiano suscitato le loro ottime mosse di mercato. Ma non sono per nulla sottovalutati se si guardano le proiezioni over/under di Las Vegas – che considerano i Jazz la possibile quarta miglior squadra della lega dietro Bucks, Clippers e 76ers – e la considerazione che si sono guadagnati fra gli addetti ai lavori.  

Le aggiunte di Bojan Bogdanovic e Mike Conley ad un quintetto che già vedeva schierati Donovan Mitchell, Joe Ingles e Rudy Gobert, aprono una serie di possibilità offensive fino all’anno scorso impensabili per Quin Snyder.

Conley è un netto passo avanti rispetto a Ricky Rubio. L’unico, grande dubbio è quello sulle sue condizioni fisiche. Gli infortuni hanno infatti tormentato tutta la carriera dell’ex-Memphis: l’unica stagione che ha giocato per intero è stata quella da sophomore, e l’ultima da almeno 80 partite disputate risale a ben sei anni fa.

Se Conley sta bene e la sua produzione si avvicina a quella dell’anno scorso, però, gli Utah Jazz possono davvero ambire all’élite della Western Conference. Il giocatore ex Memphis è un difensore intelligente e arcigno, e in attacco sa creare per sé e per gli altri. Le maggiori attenzioni che richiederà alla difesa avversaria potranno aiutare Donovan Mitchell a giocare con più libertà, senza il peso di essere l’unica opzione offensiva della squadra, e questo potrebbe trascinarlo fuori dal tunnel in cui era finito la scorsa stagione.

Il vero difference maker per i Jazz resta comunque Rudy Gobert. L’arrivo di Conley crea un pericoloso duo col lungo francese, ma è probabilmente Bogdanovic a rappresentare la vera manna per il due volte DPOY. Utah potrà andare full high pick and roll/pop con Conley/Mitchell/Ingles, oppure continuare a sviluppare gioco attraverso hand off; in entrambi casi, avere un tiratore mortifero come Bogdanovic aperto in angolo regalerà notevole spazio in più ad un rollante già temibile come Gobert.

Probabilmente i Jazz faranno un’ottima stagione regolare in sordina, simile a quella dei Nuggets lo scorso anno, ma state sicuri che ai playoff faranno parlare di sé.

7) Derby di LA: quanta differenza c’è fra Clippers e Lakers?

Questa stagione sarà forse la prima nella storia di Los Angeles in cui la città californiana vivrà un derby cestistico così ad alto livello. I Clippers sono sempre stati considerati i cugini sfortunati dei Lakers, anche se dai tempi di Lob City in poi le cose si sono invertite, e i Clips si sono presi le luci della ribalta.

In questa offseason, però, entrambe le squadre losangeline si sono rinforzate, schierando ognuna due dei migliori dieci giocatori attualmente in NBA, e per la prima volta nella stessa stagione puntano entrambe a vincere il titolo.

Ma possono essere considerate davvero entrambe contender? Qual è realmente la differenza fra di loro?

Con l’arrivo di Kawhi Leonard e Paul George, i Clippers hanno ufficialmente chiuso l’interregno del post-Lob City, assemblando quella che sembra essere a tutti gli effetti una contender. Sia Kawhi che PG13 sono stati dei candidati al titolo di MVP la passata stagione, e sono forse le due ali più versatili che il gioco del basket possa offrire al momento. Immaginarli insieme è terrificante.

Domande sulla loro convivenza sono sorte, così come sorgono per qualsiasi assembramento di superstar si sia venuto a creare da anni a questa parte. È vero che da un lato le loro giocate preferite sono molto simili: sia Leonard che George giocano i loro possessi principalmente da palleggiatori sui pick and roll (con una frequenza del 26.8% per Kawhi e del 24.5% per PG) e secondariamente in isolamento (16.5% per Leonard e 13.4% per George) – fonte: BBallBreakdown. È anche vero però che la varietà delle soluzioni che entrambi hanno in quelle situazioni è tale da pensare che possano adattarsi benissimo l’uno all’altro. Soprattutto George, poi, ha dimostrato di essere letale anche in catch and shoot.

Inoltre le due stelle sembrano essere perfettamente adattabili al sistema offensivo che Doc Rivers ha costruito negli ultimi due anni, fatto sostanzialmente di pistol set, un tipo di giocata che ha visto protagonista soprattutto Leonard a Toronto.

I Clippers sono stati bravi anche a mantenere giocatori funzionali attorno al loro nuovo duo di stelle: Lou Williams, da ulteriore creatore palla in mano, continuerà ad essere devastante e potrebbe togliere molto peso dalle spalle di Leonard e George nei finali di partita; Harrell è il lungo perfetto per giocare insieme al dynamic duo, da straordinario bloccante e rollante qual è; Shamet avrà a disposizione così tanti metri di spazio da non sembrargli vero, e probabilmente toccherà nuove vette di efficienza da oltre l’arco.

E tutto ciò senza considerare la difesa, che è dove i Clippers faranno davvero paura. Una lineup con Beverley, Shamet, Leonard, George e Harrell non solo è versatile e intercambiabile, ma anche formata da alcuni fra i migliori difensori al mondo posizione per posizione.

https://www.youtube.com/watch?v=v6NihFaXQew

Un discorso simile purtroppo non si può fare per i Lakers che, nonostante l’iniezione di talento portata da Anthony Davis, sembrano essere un passo indietro ai Clippers. La prima domanda da porsi è se LeBron James lascerà la possibilità a Davis di sviluppare il proprio gioco, o se anche AD farà la “fine” di Chris Bosh e Kevin Love, costretti a sacrificare una larga parte del loro gioco offensivo per adattarsi al Re. Anche se i due esempi sopracitati sono stati funzionali per vincere un titolo nelle loro rispettive franchigie, è pure vero che LeBron era molto più giovane e aveva un impatto diverso sulle partite. Sarebbe più saggio, sulla soglia dei 35 anni, non pretendere più di essere l’unico catalizzatore offensivo della squadra, ma di scaricare un po’ del fardello anche sui compagni, e nello specifico su Davis.

Non che in assoluto la convivenza fra i due non sia possibile: anche loro come Leonard e George sono giocatori molto versatili e dei giochi a due con James da palleggiatore e Davis da screener sono sulla carta un incubo da difendere, con altri tre tiratori ad allargare il campo. Come già detto, però, LeBron a condurre lo show non può essere l’unico leitmotiv di questi Lakers, e anche sulle capacità di adattamento di Davis (ad esempio a giocare da centro, ruolo in cui sarebbe assolutamente devastante) ci sarebbe da porsi delle domande.

Le ultime dichiarazioni di LeBron, in tal senso, sono parecchio incoraggianti.

Se l’unico (o quasi) dubbio per i Clippers rimane la condizione fisica di Paul George dopo la doppia operazione alla spalla, per i Lakers gli interrogativi sono molteplici sia in campo che nello spogliatoio, e la differenza fra le due squadre, ad oggi, sembra essere la stessa che c’è fra un primo ed un quarto posto ad Ovest.

8) The Zion-Mania is upon us: quale stagione aspetta Williamson e I Pelicans?

La partenza di Anthony Davis avrebbe potuto causare una depressione di massa a New Orleans, lasciando dietro di sé un cratere tipo ground zero. La vittoria dei Pelicans nella lottery e l’ottima – per usare un eufemismo – trade che sono riusciti a strappare ai Lakers per AD hanno però riacceso l’entusiasmo per il basket in Louisiana.

L’entusiasmo è dovuto soprattutto all’arrivo in città di Zion Williamson, the Next Big Thing, uno dei rookie più anticipati in assoluto dai tempi di LeBron James. I video delle giocate di Zion si trovano su Youtube da quando aveva 14 anni o giù di lì, ed essere la prima scelta assoluta al draft sembrava semplicemente un passaggio obbligato già scritto nel suo destino.

La sua legacy però inizia adesso, e non sarà facile per un ragazzino di 19 anni gestire tutta quella pressione, anche per uno abituato fin da piccolo ai riflettori puntati su di lui.

I Pelicans hanno quindi a disposizione una squadra giovane e interessantissima, che farà perno con ogni probabilità attorno al talento – soprattutto atletico – trascendentale di Williamson. È difficile immaginare come un giocatore così unico possa adattarsi al basket NBA, ma è possibile farsi un’idea osservando come Alvin Gentry abbia utilizzato Julius Randle nella passata stagione. Non che Williamson e Randle siano due giocatori sovrapponibili, ma sono due ali atletiche, mancine e pericolose quasi solo in avvicinamento a canestro.

Gentry ha concesso al suo lungo molti isolamenti in post, sia alto che basso, consentendo a Randle di sfruttare la sua agilità e la sua forza fisica, oltre che la sua creatività in palleggio per battere il suo uomo ed arrivare nel pitturato, dove poi disponeva di un array di soluzioni non convenzionali ma efficaci per concludere.

È lecito aspettarsi che gli isolamenti in post up siano il modo migliore per coinvolgere fin da subito Zion all’interno dell’attacco, considerando che il prodotto di Duke dispone di un atletismo straripante rispetto al lungo ex-Lakers. La transizione dovrà essere inoltre una parte fondamentale dell’attacco di Gentry, dato che Williamson è in grado letteralmente di mangiarsi il campo a grandi falcate sia con che senza la palla. Anche il resto del roster punta in questa direzione, con una coppia di playmaker e ottimi difensori come Lonzo Ball e Jrue Holiday e lunghi mobili e atletici come lo stesso Zion, Brandon Ingram e Jaxson Hayes.

New Orleans è dunque alla vigilia di una delle stagioni più entusiasmanti della sua storia cestistica, una città in trepidante attesa di vedere crescere sotto i propri occhi un talento generazionale di questa portata. Difficile immaginare che facciano i playoff, considerato quanta qualità c’è ad Ovest, ma hanno tutto l’aspetto di una squadra che darà parecchio filo da torcere praticamente a chiunque, e che da qui a un paio d’anni potrebbe imporsi con forza nel panorama NBA.

Tags: Ben SimmonsBoston CelticsBrooklyn Netsgolden state warriorsHouston RocketsJames HardenJoel Embiidkemba walkerKevin DurantKyrie IrvingLos Angeles ClippersLos Angeles LakersPhiladelphia 76ersZion Williamson
Lorenzo Olivieri

Lorenzo Olivieri

Nato a Brindisi, ci ha messo appena sette anni a capire che il basket fosse lo sport più bello del mondo. Lo ha praticato per circa i vent’anni successivi, arrivando a buon livello, e lo ha guardato dal divano fino al più alto livello possibile. Il suo primo amore in NBA è Tracy McGrady, e sta ancora aspettando di trovare il secondo. Oltre al basket, ama la cultura nerd ed è un gamer incallito.

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