UN OMAGGIO A RICKY RUBIO: L’MVP DEL MONDIALE
Badalona, anno di grazia 2005. Spiagge chilometriche, in stile Venice Beach, innaffiate da quel non so che tipico della Catalogna. Quel qualcosa che ti fa stare bene, non sai perché, ma va tutto alla grande. Anche con la speculazione edilizia, che al litorale spagnolo ha fatto più danni della peste bubbonica. Una della città più antiche di un territorio troppo spesso identificato solo con Barcellona. Senza nulla voler togliere alla perla firmata da Gaudì.
In mezzo al campo (di basket), un ragazzino ossuto di 14 anni, sfoggia una visione di gioco con frequenti citazioni di Jason Kidd. Una consapevolezza degli spazi perlopiù imbarazzante, anche per un venticinquenne. Diciamo anche che “el nino”, in campo aperto, punta spesso dritto verso la filosofia Jason “White Chocolate” Williams, grazie a quell’insana tendenza a scaricare la palla sotto canestro con un mix ragionato di no-look e dietro-schiena. Un altruismo commovente. Fare contenti i compagni la sua più grande missione. Ci vuole un talento innato. Ci vuole un DNA con l’aggiunta di una quinta molecola di nome “fondamentali”. Ma, soprattutto, ci vuole coraggio.
Ricky Rubio, questo il nome dell’adolescente, di coraggio ne aveva da vendere. Era coraggioso, sfrontato, spensierato. Solo così riusciva a infilarsi in penetrazione contro gente a cui rendeva 20 cm e oltre (e almeno 10-12 anni di età), fare euro-step con finta di passaggio in angolo e layup comodo di mancina. Solo così è riuscito, Ricky, a essere il più giovane debuttante nella massima serie spagnola. Roba che a 14 anni i ragazzini che giocano a basket hanno ancora problemi a farsi passare la palla sotto le gambe in palleggio.
Un feeling per il gioco che non si può allenare. Devi avercelo e basta. Perché se vieni eletto miglior point-guard della ACB e hai 17 primavere, beh c’è da scommetterci che sei un predestinato o giù di li. Il coraggio, però, non deve mancare.
Normale che nel 2009, poi, lasci lo Joventut Badalona, perché il tuo passaggio a una mano in diagonale, dopo il pick-and-roll, richiede palcoscenici di maggior prestigio e ricevitori con più punti nelle mani. L’obiettivo finale è l’America. Nulla di più, nulla di meno.
Ma con la NBA già sulla maglia (scelto alla #5 dai T-Wolves nel Draft del 2009), Ricky Rubio decide di passare un paio di anni nel Barcellona. Per un ragazzino spagnolo nato a El Masnou, deve essere un sogno mica da poco la maglia blaugrana. Ci ha giocato Juan Antonio San Epifanio, una leggenda per il popolo iberico. Ci ha giocato Pau Gasol, ogni commento è ridondanza. È ora di incidere il nome “Rubio” nei libri di storia della Spagna, la mia terra. Detto fatto, a meno che non consideriate la vittoria di EuroLeague (2010) e della Liga ACB (2011) roba di poco conto.
Era tutto pronto per altri grandi traguardi, nel 2011. La numero “9” di Minnesota sulla schiena. Una divisa “storica”, che sembra – ancora oggi – fatta apposta per disegnare il corpo di Kevin Garnett. Tuttavia, al di là degli alti e bassi, il talento di Ricky Rubio non ha mai pienamente convinto nella NBA. La sua visione di gioco è di livello “Everest” anche in USA, ma di vittorie ne arrivano pochine, di play-off neanche l’ombra (uniche due edizioni giocate con Utah). Oltre a diversi problemi fisici che ne minano la continuità.
Poi il tiro, quel maledetto tiro, in USA non è mai arrivato con continuità. Ed è proprio lì che stanno la maggior parte dei problemi, in una lega dove devi metterla da fuori anche se sei 2.13 e pesi 130 kg. Con il 32% in carriera, il tuo pick-and-roll centrale è acqua fresca. Il tuo marcatore si stacca, non ha paura della bomba, decide di coprire l’area. Anzi, ci si potrebbe costruire un game-plan su una point-guard di 1.92 che non la mette dall’arco. Fattore che ti chiude le linee di penetrazione. Fattore che rende meno agevole la costruzione di spaziature adatte per i tuoi assist, soprattutto quando si gioca a metà campo.
Mai stellare, Ricky, nel freddo di Minneapolis. Certo, ladro di palloni tra i migliori in circolazione, ma “ai tempi della Spagna si ragionava di leggenda o robe simili”. Non male, ma non quello che ci si aspettava complessivamente tra i mormoni dello Utah.
Vedremo il prossimo anno tra i cactus di Phoenix. Squadra giovane di poche ambizioni, con un colosso come Ayton, che vuole essere servito in movimento, e una star come Booker, che in uscita dai blocchi fa davvero male a tutte le latitudini.
Riparte, però, dai Mondiali appena conclusi la carriera di Ricky Rubio. Non banali, non ininfluenti. Vinti con la Spagna, grazie anche alla sua perfetta interpretazione da “direttore d’orchestra”. Eletto MVP di un torneo, in cui i grandi nomi non mancavano di certo.
Riparte a 28 anni, il play ex Badalona. Forte di un recente 38% da tre nel torneo (ovvio a distanza FIBA), che gli ha permesso di innescare il suo “gioco di visioni”, il suo amore per la distribuzione, la sua mente veloce come un Concorde. Il coraggio ce l’ha. Quello lo ha sempre avuto. Ai Suns avrà con sé il suo coraggio e il numero “11” sulla maglia. Speriamo mantenga anche il “5” di Jason Kidd nel cuore e riscopra quella sua infantile voglia di vincere e di far felici i compagni. Disfrutala, Ricky. Disfrutala.