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Harden, better, faster, stronger

Claudio Pellecchia by Claudio Pellecchia
10 Settembre, 2019
Reading Time: 7 mins read
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«Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi
Mosse la terra e il cielo, noi siamo ciò che siamo;
Un’eguale indole di eroici cuori,
Fiaccati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà
Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere mai».

(A. Tennyson, “Ulysses”)

«So di ricevere una notevole quantità di odio per come gioco. ma questo non mi impedirà mai di uscire lì sul campo, ogni notte, dimostrando di essere quello che sono».

(J. Harden)

 

Qualche sera fa mi trovavo a Torino, a cena con alcuni amici più o meno stretti. Alla tv scorrevano le immagini in replica della partita tra Celtics e Rockets, che guardavo stancamente divorato più dall’attesa di un piatto che non arrivava mai piuttosto che dalla prevedibilità di un  qualcosa che sapevo già come sarebbe andata a finire. A un certo punto, però, ho notato che lo sguardo di uno dei commensali, che per sua stessa ammissione di basket ci capisce poco o nulla, era stato totalmente assorbito dallo schermo: «Certo che è proprio forte». Stava parlando, naturalmente, di James Harden, che aveva appena segnato l’ennesima tripla in step back all’interno di un terzo quarto ai limiti del surreale, se non stessimo parlando di quello che, attualmente, può essere considerato uno dei primi tre attaccanti sulle terre emerse.
Istintivamente la prima cosa che ho fatto è stata (provare a) fargli notare come, al netto dell’effettiva, indiscussa e indiscutibile dote di talento con cui un Barba aveva dotato il Barba, quel tipo di pallacanestro non potesse propriamente essere considerata “buona pallacanestro”. Del resto non poteva essere altrimenti, visto che negli occhi avevo ancora la gestione sciagurata di cinque degli ultimi sei possessi della partita di Natale contro i Thunder (41 e 7 assist per i soli parziali) che nemmeno un mese di dicembre concluso a 39.4 punti di media – oltre 40 se si considera l’attuale striscia parta di 11 W nelle ultime 12 partite – avrebbe contribuito a farmi dimenticare. Credo, addirittura, di aver scritto nella chat redazionale «fossi un allenatore lo prenderei a badilate» pochi istanti prima che segnasse il canestro della vittoria a 20″ dalla fine, in una conseguenzialità di eventi perfettamente calata nella realtà di un mondo in cui solo lui può vivere.

«Certo è forte, fortissimo, ma guarda i compagni sul lato debole mentre lui si isola in punta: mani sui fianchi, completamente tagliati fuori da un’azione che deve ancora cominciare. Nelle serate in cui non gli entra il tiro è un qualcosa che non ti puoi permettere a questi livelli». Lo sguardo poco convinto del mio interlocutore, oltre a farmi inizialmente riflettere sulla bontà e sull’opportunità di quella mia affermazione mi ha poi portato a pormi una domanda che a questo punto diventa fondamentale: e se con Harden stessimo completamente sbagliando l’approccio narrativo?

Nella storia NBA solo sei giocatori sono riusciti a centrare una tripla doppia con 50 o più punti a referto. James Harden lo ha fatto per quattro volte, l’ultima contro i Lakers

 

Si tratta di un qualcosa che riguarda essenzialmente “noi esperti” (abbondate di virgolette finché vi pare), molto più abituati, rispetto all’appassionato comprensibilmente rapito da quelle movenze sincopate tratte direttamente dal libro di Earl “Black Jesus” Monroe, a guardare a quei singoli dettagli che ci fanno cominciare con un’avversativa qualsiasi frase relativa ad un MVP in carica che sta viaggiando a 41.1 punti, 9.5 assist e 7.1 rimbalzi di media dallo scorso 14 dicembre. È il lato oscuro, e probabilmente stereotipato, della medaglia di quel che scrivemmo a suo tempo per Steph Curry, non a caso l’ultimo a piazzare il back to back nella corsa a quell’MVP che «I need it, I need it for sure»: e se per Curry «lo #stephgonnasteph non si sostanzia più nell’alzarsi la mattina scorrendo l’app per vedere quale altro record abbia demolito, ma semplicemente nell’aspettarsi qualcosa che sarebbe totalmente inaspettato», per Harden vale il principio per cui in ogni singola tripla doppia da 40/50 punti c’è sempre qualcosa che non va, che sia un tiro forzato di troppo, un isolamento preso quando non sarebbe stato necessario, l’ormai abituale polemica sui viaggi in lunetta (11.1 liberi tentati a partita, 27 solo contro i Grizzlies, primo nella speciale classifica) guadagnati in modi più o meno leciti. E siamo proprio noi i primi a cercare quel quid in più, anzi in meno, che ridimensioni la portata di tutto ciò che fa in campo, quasi come se riconoscere la grandezza di un giocatore unico nel suo genere costituisse una deminutio della comprensione del Gioco nel senso più puro del termine. Tradotto: dire che Harden, oggi, è uno dei primi della pista (e lo è, eccome se lo è) equivarrebbe a sdoganare una visione del basket non unanimemente accettata e, quindi, giudicata sbagliata di default.

A proposito di Curry e di Warriors: nella gara dell’Oracle Arena 44 punti (11 nel supplementare, con 13/32 dal campo e 10/23 da tre), 10 rimbalzi, 15 assist e il canestro decisivo sulla sirena

 

Non è così, ovviamente. Non del tutto, almeno. Si tratta di un’analisi complessa, da sviluppare su diversi piani di valutazione e dalle molteplici chiavi di lettura, dal punto di vista tecnico ma non solo. Una ce la fornisce direttamente Jonathan Tjarks su The Ringer: «Harden può segnare contro chiunque ma la particolarità del suo gioco è che condiziona chi sta difendendo contro di lui. per questo i Rockets hanno ristrutturato il proprio gioco in funzione dei mismatch a vantaggio del loro miglior giocatore, attraverso un sistema di corse e tagli cercando di generare separazione tra lui e il suo diretto marcatore. E anche se quest’ultimo sembra riuscire a tenerlo dal palleggio, ci sarà sempre un altro screen, un altro e un altro ancora: se il difensore fa anche solo un passo indietro Harden o ha un tiro da tre aperto o rende necessario l’intervento di un secondo difensore. Può scegliere chi attaccare, aspettando di trovare il suo punto debole prima di sfruttarlo a piacimento». Accorgimenti che hanno portato i Rockets ad avere un offensive rating di 114.7, il decimo migliore nella storia NBA, nonostante l’assenza di Chris Paul, facendo venir meno il luogo comune che il sistema di isolamenti pensato e costruito per Harden sia complessivamente dannoso per l’attacco di D’Antoni. E allora perché persiste la resistenza all’idea che si tratti dell’uomo giusto (il 54.6% dei suoi tentativi dal campo sono da oltre l’arco), al posto giusto (i Rockets tentano, mediamente, 42.6 triple a partite, 46 nelle ultime cinque: primi della lega), nell’epoca giusta?

Nonostante le statistiche da tre in carriera (36.6% complessivo e, comunque, mai oltre il 39 nelle passate 10 stagioni) potrebbero lasciar pensare il contrario, la tripla in step back è ormai la “signature move” per eccellenza di Harden, unico giocatore della storia NBA a far registrare nel’arco di una singola stagione una media di 8 assist e almeno 10 triple tentate, sublimando le caratteristiche della combo guard ideale del XXI secolo. A questi proposito ha scritto, ancora, Tjarks: «Harden ha creato un nuovo tipo di tripla doppia: una partita con 10 tentativi da tre, 10 tiri liberi tentati e 10 assist. Ci sono state 91 di queste partite nella storia, 41 sono a firma di Harden»

 

Come spesso accade, la spiegazione potrebbe essere più semplice di quanto si pensi. Da autentico visionario – da intendersi nell’accezione di chi ha previsto prima la direzione intrapresa – del Gioco, Harden si sta muovendo in una dimensione ulteriore e a tratti sconosciuta dello stesso, combinando una capacità creativa (per se stesso e per gli altri) che sarebbe tipica di due elite players e che, invece, si ritrova sublimata in uno. Con tutto il buono e il meno buono che questo comporta in termini di spaziature, divisione di ruoli e compiti, gestione dei momenti chiave delle partite. È la naturale evoluzione antropologica, prima ancora che tecnica, del basket così come sta progredendo davanti ai nostri occhi, la cui portata non ci è ancora del tutto chiara (e come potrebbe esserlo, del resto) e che, per questo, si fa sempre più difficile da raccontare nel modo giusto. Harden non è altro che la risposta anticipata alla domanda che, presto o tardi, tutti i general manager NBA dovranno porsi quando si tratterà di trovare la prossima big guard in grado di tirare da tre direttamente dal palleggio (magari con percentuali migliori), creare per gli altri con la visione periferica di un playmaker e con la capacità di guadagnarsi costantemente la doppia cifra ai tiri liberi: il problema è che questa domanda non è (ancora) così pressante, quindi il Barba continua a sembrare un surplus rispetto alle esigenze contestuali, con tutto quello che questa visione comporta in termini di racconto e narrazioni più o meno semplicistiche di un fenomeno di là da venire. Non si tratta di essere allineati agli estremismi à la Gregg Popovich, ma di mancata e completa comprensione di un qualcosa di nuovo e diverso da ciò cui siamo stati abituati, pur in piena era Golden State Warriors.

Il primo, e per certi versi persino giustificabile, errore che potremmo commettere è pensare che tutto questo sia un esperimento, un tentativo utopico di ricercare ad ogni costo un’alternativa filosofica al cosiddetto “right way”, destinato a naufragare dopo essersi scontrato contro la tranquillità della ripetizione. Nulla di tutto ciò: Harden è questo perché non potrebbe essere altro, perché se fosse altro non sarebbe così forte e comunque così decisivo per la sua squadra, perché è lo specchio di un gioco e di una lega che cambia ad una velocità talvolta insostenibile persino per i suoi stessi protagonisti, perché è uno dei pochi ad averlo capito prima degli altri e ad aver posto l’asticella ad un livello tale da renderlo difficile da capire, da spiegare, da raccontare, generando un equivoco di fondo che solo il tempo provvederà a chiarire.

Non stupisce, non deve stupire. Semplicemente si potrebbe (e dovrebbe) provare ad andare oltre i filtri di una narrazione precostituita e non adatta a raccontare il futuro guardando con gli occhi del passato. Si tratta di un basket altro, diverso, che può piacere o non piacere ma è quello cui ci stanno abituando ogni giorno: sarebbe il caso di provare a capirlo invece di rifiutarlo aprioristicamente perché “non si è mai fatto così”. Anche perché le sorprese piacevoli sono dietro l’angolo. Esattamente come gli involtini di prosciutto crudo avvolti nel grasso che mi sono arrivati al termine di quella fugace discussione: nessuno me ne aveva parlato bene, si sono rivelati la cosa più buona mai mangiata in vita mia.

Tags: Houston RocketsJames Harden
Claudio Pellecchia

Claudio Pellecchia

Giornalista di e per sport, sogna di risvegliarsi un giorno in un mondo dove Shaq e Kobe non hanno mai litigato e Tracy McGrady ha una schiena normale. Autore di libri a tempo (molto) perso, finge di capire qualcosa di basket qui, su Rivista Undici ed Esquire.

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