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Stiamo vedendo il miglior Steph Curry di sempre?

Claudio Pellecchia by Claudio Pellecchia
10 Settembre, 2019
Reading Time: 8 mins read
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Al termine delle ultime Finals, quando a Kevin Durant è toccato ritirare il secondo Bill Russell Trophy consecutivo, è stato impossibile non notare una certa punta di sorpresa (per non dire di imbarazzo) nei diretti interessati: la sensazione diffusa, infatti, era quella che al di là dei numeri (27.5 punti – 38% dal campo, 38.7 da tre -, 6 rimbalzi e 6,8 assist di media in poco più di 40 minuti di impiego a partita), avrebbe dovuto essere Steph Curry, alla miglior serie finale della carriera, il destinatario del riconoscimento di MVP dell’atto conclusivo della stagione NBA. Non a caso Nohad Nadkarni scrisse su Sports Illustrated che «Kevin Durant è convenzionalmente il giocatore più inarrestabile, ma è difficile ignorare il fatto che si sia unito a una squadra che avrebbe potuto essere una dinastia senza di lui, una squadra che aveva vinto 73 volte soprattutto grazie alle qualità individuali di Curry: si muove sempre, è un ottimo selezionatore di tiro e riesce ad agire in spazi ridottissimi, con un lavoro off the ball che è altrettanto importante di quello che fa con la palla in mano. Quindi molti degli aspetti tipici degli Warriors sono il risultato della presenza di Curry e sono statistiche non facili da misurare come la media punti per partita o le percentuali dal campo».

Di fatto, quindi, una legacy riconosciuta e riconoscibile risultava ancora mancante di quella legittimazione che il giocatore che più di ogni altro, aveva contribuito a riscrivere, anzi a imporre, il trend evolutivo della pallacanestro del XXI secolo, avrebbe certamente meritato. E questo nonostante il dettaglio, non di poco conto, dell’unanimità di vedute sul fatto che KD 35 sia effettivamente l’arma offensiva definitiva.

Ma anche questo non è male…

 

Nemmeno cinque mesi dopo e al termine di un’estate particolarmente fruttuosa a parole e nei fatti – «È stata probabilmente una delle migliori offseason che abbia mai avuto in termini di preparazione per l’inizio della stagione. Non vedo l’ora di sperimentare sul campo i risultati di questo lavoro», aveva dichiarato il #30 a fine settembre – questa grave lacuna potrebbe essere finalmente colmata. L’inizio di 2018/2019 di Curry, infatti, è quello tipico di un uomo in missione per conto di Dio o, più semplicemente, di se stesso, all’apice dello sviluppo psico-fisico e ormai perfettamente in grado di gestire e gestirsi nei suoi momenti di assoluta onnipotenza e all’interno di una maratona di quasi 100 partite in cui a contare non è il quanto ma il quando. E le dichiarazioni di Steve Kerr al termine della partita con gli Wizards – «Hai in squadra uno che si prende tiri da 12 metri e tu sei in panchina a urlargli “Bene così, buon tiro”, applaudendolo. Spiegatemi questo, perché non abbiamo mai vista una cosa del genere» – lascerebbero pochissimi margini di interpretazione: provando ad andare oltre le sterili discussioni su improbabili classifiche all time (per quanto sarebbe inusuale pensare a un’ideale top 10 che non contempli il figlio di Dell) o le infinite discussioni sul primus inter pares della NBA contemporanea, siamo probabilmente di fronte al miglior Steph Curry di sempre. O, almeno, alla versione che più gli si avvicina.

15/24 dal campo, 11/16 da tre, 10/10 ai liberi (il tutto in poco più di 32′ di impiego), 18 punti in meno di 4′, 31 all’intervallo lungo. Per Curry è stata la quinta partita in carriera con almeno 50 punti e almeno 10 triple mandate a bersaglio, la seconda contro gli Wizards dopo quella del 3 febbraio 2016. Il resto dei giocatori nella storia NBA arriva a quota tre. Si è trattato, inoltre, della sesta volta con almeno 11 tiri da tre realizzati: il combinato disposto di chi in passato ha messo insieme prestazioni del genere è sette 

 

Anche in questo caso non è una questione strettamente statistica, per quanto le cifre siano comunque impressionanti (237 punti in 243′ stagionali, rispettivamente tre e sette triple di “vantaggio” su Cavaliers e Thunder, una prima settimana di regular season da 34.6 punti – più 6.8 assist e 4.8 rimbalzi – in 34.8 minuti, con il 55% dal campo, il 52% dall’arco e il 91% dalla lunetta): stiamo parlando di quel «physical and emotional peak», già citato da Kerr, che permette di esprimere il massimo del potenziale in una maniera del tutto nuova e molto più efficace rispetto al recente passato. Se nel 2015/2016, quando divenne il primo giocatore della storia ad essere votato MVP all’unanimità, Curry per giocare “da Curry” aveva bisogno di spingere al massimo sempre, comunque e dovunque (e, infatti, il crollo nella parte finale fu prima fisico – causa infortuni in serie – e poi mentale, sotto i colpi del trash talking di LeBron), oggi ci troviamo al cospetto di una superstar più matura e consapevole, che ha diminuito la “violenza” e l’immediatezza del proprio gioco per aumentarne l’efficacia sul medio-lungo periodo. Per poi (ri)emergere quando conta davvero.

Tipo qui…

 

La partita contro gli Wizards costituisce la rappresentazione plastica di questo concetto: al netto del fatto che, ad eccezione di un paio di situazioni assolutamente codificate e prevedibili all’interno della “sua” pallacanestro, almeno 9 delle 11 triple segnate siano arrivate in situazioni in cui era assolutamente impossibile per il diretto avversario intuire modi e tempi della conclusione stessa, non si è mai avuta l’impressione che Steph stesse facendo davvero sul serio. Certo che era totalmente immarcabile, certo che era lui, come al solito, a decidere quando, come e da che distanza segnare: eppure il tutto è avvenuto in modo assolutamente naturale, senza quella sensazione di forzatura che, seppur in minima parte, accompagna ogni prestazione da giocatore on fire che si rispetti. Lo ha confermato il diretto interessato – «Tutto andava al mio ritmo. Inizi a sentirti bene, non devi assolutamente forzare tiri per trovare il canestro e tutto quello che devi fare per segnare ancora è ripetere lo stesso movimento» -, lo ha scritto Dan Devine su The Ringer: «Non c’è nessuna esperienza legata al basket che sia minimamente paragonabile al vedere come Steph Curry prenda fuoco: il senso disorientante che prende nel vedere le regole del gioco e della fisica che si dissipano come nuvole di fumo, l’impotenza, le facce attonite e la soggezione che ispira negli altri giocatori NBA, l’estasi che provoca sugli spalti dell’Oracle Arena. La lega è piena di splendore, ma quello che fa Curry è diverso, è speciale. Oggi, dopo due stagioni in cui la sua alleanza con Durant sembrava averlo spinto ai margini della lotta per l’MVP, la sua candidatura è tornata più forte che mai».

Warriors’ Stephen Curry is the NBA’s all-time leader in games with…
5+ threes: 185
6+ threes: 106
7+ threes: 61
8+ threes: 38
9+ threes: 17
10+ threes: 10
11+ threes: 6
12+ threes: 2
13+ threes: 1.

— Ben Golliver (@BenGolliver) 25 ottobre 2018

Al 26 ottobre 2018 Curry è il quinto ogni epoca per tiri da tre realizzati in carriera (2.162 in 630 partite). Inoltre, dal 4 dicembre 2017 – 31 punti e 5/11 dall’arco contro i Pelicans -, è il giocatore ad aver impiegato meno gare per raggiungere la soglia delle 2000 triple: appena 597, 227 in meno di un mostro sacro come Ray Allen

 

Le differenze con il 2016, sublimato nell’iconica prestazione di Oklahoma City contro i Thunder, sono minime ma sostanziali: Curry ha talmente ridefinito lo standard dell’eccellenza (suo, ma anche degli altri) che lo #stephgonnasteph non si sostanzia più nell’alzarsi la mattina scorrendo l’app per vedere quale altro record abbia demolito, ma semplicemente nell’aspettarsi qualcosa che sarebbe totalmente inaspettato. E, anzi, stupendosi di quelle rare volte in cui le prestazioni rientrano in una parvenza di “normalità”, comunque sovradimensionata per buona parte dei giocatori NBA. Non più un bug impazzito del sistema ma un vero e proprio «giocatore generazionale», riprendendo una calzante definizione di Tim Bontemps sul Washington Post, in un paragone con John Wall e Bradley Beal probabilmente ingeneroso ma assolutamente adatto a spiegare la differenza che c’è oggi tra Curry e tutti gli altri, anche in termini di impatto sul collettivo: «Non c’è nulla di male nel non essere Steph Curry. In fondo solo un giocatore può essere il più grande tiratore che la storia abbia mai visto. Alcuni qui a Washington continueranno a cavalcare l’idea che Beal e Wall siano dei grandi giocatori: e lo sono, certamente. Entrambi sono tra i primi 30 della lega ed entrambi sono guardie All Star che qualsiasi squadra sarebbe elettrizzata all’idea di avere. […] Ma, semplicemente, non è abbastanza. Ci vuole un talento trascendente, come Curry o LeBron James, per elevare al massimo il livello di una squadra».

Tranquillo John, ci sono passati tutti

 

Quindi la risposta alla domanda, nemmeno tanto retorica, che ha ispirato questo articolo è “si”. Anche, se non soprattutto, mettendo da parte premature discussioni sulla corsa all’MVP, tanto più nell’anno in cui Antetokounmpo sta mettendo su numeri chamberlaineschi, Leonard sembra entrato nell’ordine di idee di mettersi a giocare anche nel lontano nord, Anthony Davis being Anthony Davis e LeBron James ha una nuova missione da portare a termine: perché non conta più quello che Steph rispetto agli altri, ma solo e unicamente quello che fa in relazione a ciò che è stato, a ciò che è, a ciò che sarà. Non è più tra lui e gli altri, ma tra lui e se stesso, in un 1vs1 continuo e prolungato alla ricerca di un limite che sembra essere stato raggiunto. E quando sei tu e tu soltanto l’unico termine di paragone possibile allora si è definitivamente entrati in una nuova dimensione, la migliore possibile per il miglior Steph Curry possibile: «Sta bene fisicamente e mentalmente» disse non molto tempo fa Bruce Fraser, l’assistant coach definito “l’uomo più interessante della NBA”. «Non vede l’ora di iniziare la stagione, è molto più entusiasta di quanto non sia mai stato in passato. Posso avvertirlo chiaramente. È Steph Curry. Non mi aspetto niente di diverso, non mi aspetto niente di meno».
35 punti in 36′, 11/26 dal campo, 7/15 da tre. Contro i Nets Curry ha battuto un altro record, facendo registrare la settima partita consecutiva con almeno cinque triple a bersaglio: il precedente record di sei, appartenente a George McCloud, durava dalla stagione 1995/1996. In generale, in questa stagione siamo al 50% dall’arco con almeno 14 triple tentate di media

 

Benvenuti nella rivoluzione. Quella definitiva. Ancora una volta.

Tags: golden state warriorsSteph Curry
Claudio Pellecchia

Claudio Pellecchia

Giornalista di e per sport, sogna di risvegliarsi un giorno in un mondo dove Shaq e Kobe non hanno mai litigato e Tracy McGrady ha una schiena normale. Autore di libri a tempo (molto) perso, finge di capire qualcosa di basket qui, su Rivista Undici ed Esquire.

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