Nei giorni scorsi, in quel di Trieste c’è stato un clinic, sponsorizzato dalla NBA, in cui il protagonista assoluto è stato Lionel Hollins: uno che da giocatore è stato in grado di vincere un anello con i Portland Trail Blazers, nella stagione 1976-77, e di essere convocato all’All Star Game del 1978. Da allenatore, poi, ha guidato i Memphis Grizzlies alla Western Conference Finals nel 2013, miglior risultato nella storia della franchigia, ed è stato il coach dei Brooklyn Nets dal 2014 al 2016, periodo in cui è stato presente anche Kevin Garnett.
Capirete, quindi, l’onore, l’onere e il piacere di poter discutere con un’autentica eminenza grigia del gioco.
Parliamo del clinic: su quali dettagli si è soffermato?
“Ho parlato di molti dettagli, un pochino della mia filosofia, un po’ delle differenze tra la NBA ed il mondo dell’high school americano e del basket giovanile. Abbiamo provato assieme ai ragazzi presenti alcuni principi della early offense dei Golden State Warriors, determinati attacchi degli Houston Rockets di James Harden e diversi schemi dei Cleveland Cavaliers quando avevano LeBron. Abbiamo visto quanto siano diversi da Golden State e ciò che rende i Warriors un pochino più efficienti. In più mi sono soffermato sulla difesa, su alcuni esercizi in questo fondamentale, sul tiro e sullo sviluppo individuale dei giocatori. Preparo sempre i clinic prima di farli ma non ho uno schema fisso e mi soffermo su questi aspetti in base all’andamento dell’allenamento. In questi eventi cerco di dare una visione generale del basket americano ai bassi ed agli alti livelli che sono totalmente diversi in Europa. Non ci sono club in cui ragazzi di sedici anni passano al professionismo e ciò che abbiamo è il circuito AAU che inizia ad aprile e termina ad agosto, periodo in cui i giovani giocano circa cinquanta partite. L’AAU è dominante negli Stati Uniti e ciò determina aspetti positivi e negativi per i ragazzi. Loro hanno il vantaggio di essere liberi in campo ma è a questa età che acquisiscono quelle cattive abitudini difficili da eliminare una volta che accedono in una struttura organizzata. Inoltre la fama e la notorietà arriva molto presto negli States. Si parla di talenti di dieci, undici e dodici anni e loro si sentono delle star anche a questo livello. Questo nonostante servano molti anni prima di passare in NBA e loro credono che sia un loro diritto essere nella lega. È per questo motivo che alcuni di loro faticano molto nel loro percorso professionale. Abbiamo giocatori molto atletici negli Stati Uniti e non vedo ancora questa caratteristica in Europa. Ci sono stati alcuni esempi come Manu Ginobili, che è stato un ottimo atleta, ma i suoi connazionali non lo erano nonostante abbiano avuto comunque una lunga carriera nella lega. Per essere un giocatore dominante l’atletismo, come le abilità sul campo e la mentalità, è un ingrediente fondamentale per le future superstar della pallacanestro che desiderano arrivare ai livelli di LeBron James, Kobe Bryant, Michael Jordan e Dirk Nowitzki.”
Nella stagione NBA 2015-16 il numero di tiri da tre tentati, da parte di una squadra, è stato di 24.1 a partita e questa statistica è aumentata fino al 29.0 della stagione 2017-18. Quanto è importante questa statistica per giudicare il futuro della pallacanestro? Sarebbe più sensato aggiungere una linea da quattro punti o di mettere la linea da tre punti più lontana?
“Dipende dalla filosofia cestistica di ognuno di noi. Molti vorrebbero che la distanza per un tiro da tre sia più corta tanto che, dal 1994 al 1997, la linea venne avvicinata a 6,75 metri. Sta diventando un’arma dominante da usare perché ci sono più giocatori che sanno fare canestro da quella posizione ma non è un tiro dal 50% di realizzazione. Ci sono tanti che hanno una media del 35-40% e ciò rappresenta un tiro con una percentuale troppo bassa. Certo, quando hai molti giocatori in roster con abilità balistiche, come Houston, diventa un gran problema per gli avversari. Credo che la filosofia moderna sia quella di segnare più triple, giocare velocemente e realizzare sempre più punti ma non so se dipenda tutto dalla linea da tre perché negli anni settanta e ottanta c’erano squadre che realizzavano centoventi punti a partita, senza l’ausilio del tiro da tre. Anche i Warriors, con il fatto che sono conosciuti per le loro capacità balistiche, sono sottovalutati nel modo in cui creano lay-ups e tiri dalla media ed è anche per questo che realizzano così tanti canestri e sono così difficili da battere.”
Preferisce la filosofia adottata in NBA o in FIBA?
“Penso che siano simili. Credo che in FIBA i giocatori sono in una struttura molto organizzata ed il gioco sembra diverso ma sono loro quelli che aspirano all’NBA, in cui si adattano molto velocemente. Non credo che ci siano tante differenze ed è l’apparenza che le crea. Se una persona guardasse tante partite FIBA crederebbe che l’NBA sia diversa ma se vedesse anche molta NBA si accorgerbbe di quanto pick and roll, blocchi e tagli backdoor ci siano in entrambe le competizioni. Mi piace semplicemente la pallacanestro, se è bella da vedere per me è indifferente il luogo in cui sia giocata.”
Ha allenato giocatori come Marc Gasol, Kevin Garnett, Zach Randolph e Rudy Gay ma con Mike Conley condivide molte caratteristiche da giocatore. Entrambi playmaker, mancini e con un gran motore difensivo per il ruolo. Per lei è stato più semplice o complicato allenarlo rispetto a tutti gli altri?
“No. Penso che allenare sia un qualcosa di quotidiano. Quando ero un assistant coach allenavo i lunghi e non le guardie. Quando sono diventato un head coach sapevo come gestire gli esterni ma allenare è allenare. Mike Conley non è stato più semplice da allenare rispetto a Zach Randolph o Marc Gasol per un aspetto mentale. Sapevo esattamente cosa aspettarmi dal suo ruolo e lui pensava che fossi tosto con lui rispetto agli altri per questo motivo. Eppure credo che sia solo un aspetto dell’essere un allenatore. Non penso che sia stato più semplice allenarlo perché anche io ero un play, quindi posso dire che ho allenato tutti con lo stesso approccio.”
Oggi giorno i coach dell’NBA hanno un ruolo cruciale e difficile. Pensa che la maggior parte di loro sono al centro del progetto o devono avere la capacità di adattarsi al roster che hanno a disposizione?
“Credo che ognuno segua la propria idea ma quando ricopri questo ruolo devi, per prima cosa, guardare i filmati e vedere cosa sanno fare meglio i giocatori e cercare di costruire un sistema attorno a loro. Alcuni sono focalizzati sulla propria idea come Mike D’Antoni. Quando era a Denver non ha avuto successo mentre a Phoenix l’ha ottenuto perché ebbe Steve Nash. A New York e Los Angeles ha faticato ma ora a Houston ha James Harden ed è in grado di far vincere la squadra. Lui è stato caparbio a mantenere questa sua filosofia, ha avuto le sue opportunità ed ora sta andando molto bene. Molti coach hanno provato a persistere con il loro sistema ma hanno fallito quando non hanno avuto i giocatori adatti a loro ed in seguito sono stati licenziati e privati di opportunità. Credo che se un coach non ha quello che vuole, prova ad effettuare cambiamenti anche perché, se non lo fa, perde le partite ed il suo lavoro.”
Chi ha le migliori chance di vincere l’anello nella stagione 2018-19?
“I bookmakers credono che Golden State sia la favorita ma mi piace ciò che vedo a Boston, Toronto, Philadelphia e Houston. Ci sono delle franchigie che possono battere i Warriors anche perché non hanno mai vinto in scioltezza negli ultimi anni. Hanno vinto e dimostrato di essere i migliori ma hanno dovuto faticare molto. In più poteva accadere un semplice dettaglio, come un infortunio, che poteva farli perdere. Sono molto forti e versatili come squadra ma ci sono tante variabili che possono avvenire. Non sappiamo come sarebbe finita se Chris Paul avesse giocato Gara-6 e l’eventuale Gara-7 nella finale di Western Conference e sono dettagli come questi che determinano il vincitore e lo sconfitto. Comunque sia credo che ci siano tante squadre che possano vincere.”
Dal suo punto di vista, quale giocatore farà il salto di qualità quest’anno?
“Un giocatore che mi viene in mente subito è Anthony Davis, che già ha fatto un grandissimo miglioramento. Sono convinto però che andrà nella stratosfera e sarà uno dei migliori giocatori della lega. Altri che mi vengono in mente sono Donovan Mitchell, Jayson Tatum, Terry Rozier e C.J. McCollum ma, assieme a Damian Lillard, non so se hanno quel livello in più per essere un franchise player che trascina il roster fino alla Finals. Un altro è sicuramente Devin Booker dei Phoenix Suns. Dipende tutto da quanto saranno in grado di imparare e crescere, sia fisicamente che mentalmente. Per loro è un continuo processo di sviluppo e per migliorare devono avere uno spirito estremamente competitivo ogni giorno ed una immensa resistenza mentale. Se fai trenta punti i media dicono quanto tu sia stato bravo ma a quel punto sei disposto a lavorare più duramente? Questo è il dettaglio che permette di fare quello step in più ed alcuni si cullano sui propri traguardi, che comunque sono di altissimo livello in alcuni casi. Comunque è difficile da giudicare perché ogni giocatore ha aspirazioni diverse e già i soldi possono compromettere una carriera. Se accetti un’estensione contrattuale da $150 milioni in cinque anni avrai la stessa fame per lavorare ogni giorno per migliorare? Ed è la risposta a questa domanda che fa la differenza.”
Qual è il suo Mount Rushmore della storia NBA?
“Non ne ho uno. Ci sono stati così tanti giocatori grandiosi in questa lega. Se prendiamo in considerazione ogni era ci sono almeno quaranta giocatori che meritano grandissimo rispetto e quindi, per me, è impossibile avere un Mount Rushmore. Ho visto tantissimi grandi giocatori, da Jerry West, Elgin Baylor, Wilt Chamberlain, Hal Greer, Bill Russell, Sam Jones ed Oscar Robertson nei soli anni sessanta. Erano tutti fortissimi! Trovo molta difficoltà a scegliere quattro nomi di questa sola era, figuriamoci se includessimo l’era di Magic, Bird e Julius Erving e le successive! Dai è impossibile!”
Nel giugno 2018 Larry Brown ha siglato un contratto con la FIAT Torino nel ruolo di Head Coach. Si vede in una panchina europea in questa o nella prossima stagione?
“Beh non me l’hanno mai chiesto. Non ci ho mai pensato ma mi piace venire in Europa e lavorare con i loro giocatori e coach. Se dovesse arrivare un’opportunità la prenderei in considerazione e vedrei se ne valga la pena. In più i miei figli sono cresciuti quindi, se dovessi lasciare gli States, non hanno bisogno di me quindi non sarebbe troppo difficile per me effettuare questo cambiamento. In estate ho allenato High School e in molti mi hanno chiesto il perché. Beh, per me è puro divertimento ovunque questo lavoro si possa fare.”
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