Rui Hachimura, Yuta Watanabe, Chikara Tanaka. Nomi che, magari, non diranno granché all’appassionato medio di basket internazionale ma che, in realtà, rappresentano l’attuale prodotto finale di una delle più significative aperture culturali legate al mondo dello sport: stiamo parlando, infatti, dei migliori prospetti del basket giapponese sulla strada di una difficile qualificazione al Mondiale 2019 e, soprattutto, delle Olimpiadi di Tokyo del 2020. Dei tre, Hachimura è certamente quello più noto al pubblico mainstream: messosi in luce ai Mondiali under 19 del 2017 (quelli dominati dal Canada di R.J. Barrett per intenderci), a oltre 20 punti e 11 rimbalzi di media, ha da poco concluso la sua seconda stagione a Gonzaga (11.6 punti e 4.7 rimbalzi di media in 37 partite); Watanabe, dopo quattro anni con i Colonials del George Washington College (16.3 punti e 6.1 rimbalzi nella sua stagione da senior) e il non rimarchevole undrafted dello scorso 21 giugno – anche se si sta facendo valere in Summer League -, è in attesa di un’opportunità nel pallacanestro professionistica, magari europea; Tanaka, infine, è l’enfant prodige, già aggregato alla Nazionale maggiore e in procinto di diventare il più giovane debuttante della storia della selezione del Sol levante.
Se vi sembra comunque poco per parlare di “golden generation” vera e propria vale la pena riportare un dato significativo: in Giappone i playground – per lo più frequentati dai gaijin, gli stranieri – disponibili sono appena 30 in relazione ad una popolazione di 126 milioni di persone, con la B-League – neonata lega locale, risultato della fusione tra la National Basketball League e la BJ League nel settembre 2016 – che ha un seguito di appassionati decisamente minore rispetto a quelle di calcio e baseball, il vero sport nazionale. In un simile quadro, quindi, non è assolutamente esagerato raccontare di essere alle soglie di una nuova era del basket nipponico. E, stando a questo articolo apparso sul sito della FIBA poco meno di un mese fa, il motivo è essenzialmente uno: Slam Dunk.
Per chi non sapesse di cosa si tratta, Slam Dunk è uno spokon – termine che indica i manga dedicati alle storie di sport – di 31 volumi e 121 milioni di copie vendute, ambientato nel mondo della basket liceale, scritto e disegnato dal mangaka Takehiko Inoue, pubblicato a puntate tra il 1990 e il 1996 sul settimanale Shonen Jump (in Italia distribuito dalla Panini Comics a partire dal 1997), e dal quale è stato tratto un anime di 101 episodi – più quattro OAV – che segue fedelmente la linea narrativa proposta dal fumetto, con alcune variazioni nel finale. Quello relativo all’aspetto commerciale dell’opera (in un sondaggio del 2012 risultava ancora essere il manga sportivo più letto dai giapponesi, nonché il secondo in assoluto dietro One Piece), comunque, è forse il dettaglio meno importante per valutarne l’impatto socio-culturale: riprendendo quanto scritto da Jacopo Mistè su Anime Asteroid, «l’opera ha avuto un’influenza enorme sulle società non solo giapponesi, ma addirittura asiatiche, testimoniata dall’enorme numero di campi da pallacanestro sorti in quel periodo in Giappone, Taiwan, Cina, Corea, Thailandia e Filippine. Il basket ha sostituito, nel cuore di centinaia di milioni di asiatici, il calcio e il baseball», anche grazie ai continui riferimenti ad una Nba che stava ancora sfruttando il traino dell’epoca Jordan. Lo stesso Inoue, inoltre, ha più volte rivelato di ricevere settimanalmente lettere di giovani fan che avevano iniziato a giocare dopo aver letto un volume o visto una puntata di Slam Dunk e che lo ringraziavano per avergli aperto nuove prospettive e possibilità su uno sport relativamente conosciuto alle loro latitudini: qualcosa di mai visto, né prima né dopo. E se il manga rappresenta un esempio di come la scrittura di un testo possa essere allo stesso tempo elevata ed accessibile – come spiegato in questo splendido pezzo di Vanni Santoni su Prismo – è con l’anime (trasmesso tra il 1993 e il 1996 in Giappone, in Italia dal 2000 in poi) che il lavoro di Inoue ha raggiunto la necessaria (e meritata) diffusione.
Il motivo del successo di Slam Dunk risiede, principalmente, in una storyline riconosciuta e riconoscibile nei suoi tratti caratterizzanti (tipici dei manga/anime dello stesso genere) ma che si sviluppa in una maniera innovativa e maggiormente aderente alla realtà: Hanamichi Sakuragi è un teppistello attaccabrighe, al suo primo anno al liceo Shohoku della prefettura di Kanagawa, che per far colpo su Haruko Akagi – la ragazza che lo incoraggia a provare con il basket per via della sua altezza e della quale si innamora fin da subito -, decide di entrare nella squadra della scuola, pur non avendo mai praticato questo sport. Anche grazie a lui lo Shohoku – le cui divise richiamano in maniera significativa quelle dei Chicago Bulls, squadra di riferimento della Nba nonché della pallacanestro mondiale dell’epoca – riuscirà a qualificarsi per la prima volta ai campionati nazionali, al termine di un percorso in cui la classica tematica dell’underdog che raggiunge il suo obiettivo, si snoda attraverso una narrazione che facilita l’identificazione con il lettore/telespettatore: Hanamichi ci viene presentato come un antieroe romantico, a tratti comico, a tratti irriverente, la cui scalata la successo viene ripetutamente ostacolata da limiti tecnici e psicologici che non possono essere superati banalmente nel giro di qualche puntata ma che richiedono, proprio come nella vita reale, un processo di interiorizzazione e consapevolezza lungo e complesso, fino al punto da far pensare che anche lui, esattamente come noi, possa non farcela. Diversamente da Captain Tsubasa (e altri anime analoghi) – dal quale prende le distanze anche nel realismo e nella veridicità delle singole azioni di gioco: le concessioni all’inverosimile si limitano ad un gran numero di adolescenti abbondantemente sopra l’1.90 in un paese dove l’altezza media e 1.71 – , dove non è in discussione il “se” della vittoria ma unicamente il “come”, in Slam Dunk la sconfitta non solo è contemplata ma arriva quasi a risultare necessaria nella raffigurazione di quei conflitti interiori – profondamente umani e, per questo, molto “reali” – con cui il protagonista deve fare i conti, fino alla catarsi definitiva e non certo scontata. Commettere un errore clamoroso, magari dopo una giocata potenzialmente decisiva, è, quindi, perfettamente in linea con la narrazione voluta da Inoue per umanizzare la storia e mantenerla nei binari di un realismo non riscontrabile in nessun’altra opera (in tal senso il finale del manga è ancora più esemplificativo). E anche quando il momento del riscatto sembra essere arrivato, può verificarsi l’imprevisto – magari sotto forma di errore arbitrale – a rovinare i sogni di gloria. Esattamente come nella vita di tutti i giorni di una persona normale. Anzi, di un giocatore normale:
Altro punto di forza è costituito dalla caratterizzazione dei personaggi. Oltre Sakuragi, infatti, ciascuno degli altri protagonisti riveste un ruolo primario e ugualmente decisivo all’interno della storia, quasi a voler ribadire l’importanza del concetto di squadra in uno sport a forte connotazione collettiva: c’è Akagi, capitano di lungo corso, totalmente dedito al raggiungimento di un obiettivo che è diventato quasi un’ossessione; c’è Rukawa, matricola dal talento innato e infinito – e, per questo, naturale opposto di Hanamichi: il conflitto tra i due, apparentemente insanabile, assumerà connotazioni e sfumature diverse nel corso della serie diventandone uno dei tratti salienti -, a tratti ossessivo nel suo voler diventare il migliore a ogni costo ma che deve imparare a mettersi al servizio degli altri; ci sono Mitsui e Miyagi, personalità devianti chiamate ad esprimersi e ritrovarsi attraverso il gioco; c’è Kogure, equilibratore del gruppo che dopo “anni di fatiche e botte e vinci casomai i mondiali“; c’è l’allenatore, il signor Anzai, una sorta di maestro Miyagi chiamato a mettere tutto assieme attraverso l’insegnamento piuttosto che l’allenamento. E ci sono, naturalmente gli avversari: anche loro fortemente caratterizzati e al servizio del filone narrativo principale e che, proprio per questo, compaiono sulla scena in funzione del momento storico e psicologico dello Shohoku, piuttosto che disposti in un ordine di difficoltà crescente – alla stregua dei boss di fine livello di un videogioco – come accade ai villain degli altri anime. Il risultato è che, di volta in volta, i protagonisti si confrontano non con un avversario più o meno forte ma con quello “giusto”, all’interno di un percorso di crescita individuale e collettiva.
Il modus narrandi, poi, è assolutamente unico. Nel suo trattare tematiche comunque rilevanti anche dal punto di vista sociale – il riscatto del singolo attraverso il gruppo, la seconda occasione, lo sport come insieme di valori di vita e fondamentali d’esistenza, l’importanza di una buona istruzione -, Slam Dunk tende a evitare sapientemente la retorica ridondante e i toni inutilmente elevati in favore di un registro più immediato, colloquiale, accessibile, divertente (l’episodio Il team delle insufficienze – di cui potete vedere qualche sequenza qui – ha raggiunto vette di comicità ancora inesplorate) e perfettamente funzionale a una narrazione che, relativamente agli obiettivi che si pone, non poteva essere pensata diversamente. Del resto, come ha scritto il già citato Santoni – esprimendo un concetto si relativo al manga ma che può essere probabilmente allargato anche all’anime – «Slam Dunk, anche in forza della natura non solo direttamente competitiva ma anche basata sul doppio livello di ruoli speculari e marcature a uomo del basket, porta tutto questo tanto allo zenit concettuale, trovando anche, nell’assegnazione dei ruoli-archetipo, nuovi livelli di godibilità attraverso l’immedesimazione».
E anche il finale, che interrompe solo apparentemente il corso degli eventi, non sfugge a questa logica. Pur nelle già accennate differenze tra il manga e l’adattamento televisivo – quest’ultimo si arresta al momento della partenza per il campionato nazionale, mentre il fumetto racconta anche gli avvenimenti e le partite successive -, in entrambi i casi il lasciare tutto “in sospeso” risponde nuovamente a quell’esigenza di realismo che caratterizza l’intero impianto narrativo e che gli ha fornito quegli elementi di novità e identificabilità che hanno fatto la fortuna della serie. Andare oltre – magari rientrando nello stereotipo della piccola squadra di provincia che giunge alla vittoria finale tra lo scetticismo generale e/o dei protagonisti che arrivano a disputare Mondiali e Olimpiadi prevalendo su avversari solo nominalmente più forti – avrebbe significato allinearsi a una logica di massa totalmente in contrasto con quella che ha ispirato un prodotto irripetibile e dall’importanza culturale ancora oggi potenzialmente incalcolabile.
Senza contare che, in fondo, il Giappone del basket alle Olimpiadi ci sarà comunque. Nel 2020, a casa sua. Nel mondo reale, soprattutto. Senza i personaggi di Slam Dunk eppure anche grazie a loro.