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I tifosi NBA e il senso di appartenenza: quando il campanilismo non è tutto

Claudio Pellecchia by Claudio Pellecchia
6 Settembre, 2019
Reading Time: 7 mins read
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Nel bellissimo libro Il basket eravamo noi di Jackie MacMullan, la rivalità tra Larry Bird e Magic Johnson (e, quindi, quella tra Boston Celtics e Los Angeles Lakers) viene presentata non tanto come lo scontro tra i più grandi giocatori dell’epoca quanto, piuttosto, tra due filosofie di gioco e di vita, due modi di stare al mondo: da una parte la concretezza, l’umiltà, l’operosità dei figli del Massachusetts; dall’altra lo star system, i lustrini, l’apparire prima ancora che l’essere tipico dell’ambiente angeleno. Chiaro che, ovviamente, c’era molto di più e di più profondo da entrambe le parti, così come è altrettanto chiaro che, a oltre trent’anni di distanza, una simile chiave di lettura sarebbe fin troppo superficiale e semplicistica per provare a raccontare il rapporto e il senso di appartenenza che lega i tifosi alla propria squadra. E non solo perché, nel frattempo, anche la rivalità più feroce ha assunto contorni più soft o perché a Seattle sono quasi dieci anni che aspettano il ritorno dei Sonics: la NBA è diventata una delle leghe professionistiche più famose del mondo (se non la più famosa in assoluto), dal volume d’affari pressoché inarrivabile (le previsioni sui ricavi del 2017 raccontano di una cifra che supera i sei miliardi di dollari, mentre sono 24 quelli garantiti dall’accordo televisivo con Turner Broadcasting e Walt Disney Company per i prossimi nove anni) e in continua espansione verso i mercati europei ed asiatici. In un simile contesto di globalizzazione estrema e di bandwagoning selvaggio (il fenomeno che permette di vedere tantissime maglie di LeBron James all’Oracle Arena e/o di Stephen Curry alla Quicken Loans) ha ancora senso parlare del concetto di “appartenenza territoriale” legato ad una squadra NBA?

Stagione 2011/2012: ne è passata di acqua sotto il Golden Gate

 

Per provare a rispondere a questa domanda è necessario partire da un paio di presupposti di base. Il primo è di natura culturale: l’appassionato medio NBA ha un approccio al tifo molto diverso dalla visione europea, anzi “latina”, dello stesso. Nel momento in cui un tifoso Lakers commenta la partita sui social non scriverà «abbiamo vinto/perso» ma «i Lakers hanno vinto/perso»: una differenza non da poco e che indica come l’atto del tifare resti fondamentalmente circoscritto all’evento sportivo in senso stretto, venendo meno l’esperienza piena e totalizzante che, al di qua dell’Atlantico, porta il fan ad identificarsi pienamente con la sua squadra 24 ore su 24, sette giorni su sette. Qualcosa di simile si riscontra solo a livello di sport universitario dove il forte senso di appartenenza alla propria alma mater si lega a quella visione che, ai tempi del Mondiale di calcio del 1994, fece capire al resto del mondo come gli americani intendessero il dilettantismo come l’esperienza sportiva più pura e vera, diversamente dal professionismo dove contano esclusivamente entertainment e nomi sul tabellone.

https://www.youtube.com/watch?v=Zuncfh5WekQ

E poi c’è tutto il resto…

 

Il secondo presupposto è, invece, di natura sistemica: una lega costruita sulle franchigie e sulla possibilità che lo stesse possano cambiare città d’adozione, rende teoricamente molto più difficile la creazione di una fanbase strettamente connessa al territorio. E a chi, giustamente, dice che non siamo più negli anni ’50, con i Lakers che si trasferiscono da Minneapolis a Los Angeles, o in quelli in cui Bill Russell tuona «io gioco per i Celtics, non per la città di Boston», si potrebbe obiettare che la recente querelle Pelicans/Hornets/Bobcats sull’asse Charlotte – New Orleans dimostri come l’attuale stabilità sia comunque apparente e suscettibile di variazioni in un futuro nemmeno troppo lontano.

Anche perché ci sono loro in attesa. Nemmeno tanto paziente

 

Nel maggio del 2014, in questo articolo apparso sul New York Times, è stata tracciata una “mappa del tifo” degli Stati Uniti basandosi sulla provenienza geografica dei like sugli account Facebook ufficiali delle varie squadre: un dato non certo (perché non è detto che chi clicchi “mi piace” sulla pagina sia necessariamente un tifoso) ma che costituisce un interessante punto di partenza per capire in che direzione sta andando la lega in chiave di fidelizzazione interna. Ne viene fuori un quadro vario ed eterogeneo, soprattutto se si confronta quanto è poi emerso da successivi ranking che hanno classificato le varie tifoserie e gli ultimi dati sull’affluenza di pubblico nei palazzetti pubblicata da ESPN. Oltre a partire da un parallelismo significativo con l’altro sport nazionale: «Nel baseball le squadre tendono a dominare nel proprio stato d’origine, presentando una forte identità regionale. Un qualcosa che è meno vero nella NBA».

Non c’è solo un oceano di differenza…

 

L’esempio calzante è quello degli Indiana Pacers, all’epoca una delle poche squadre in grado di rivaleggiare a Est con i Miami Heat (che, nel frattempo, da seconda squadra più tifata d’America, sono diventati la seconda peggior fanbase secondo cheatsheet.com: potere della seconda Decision lebroniana che ha permesso la “riconquista” dei Cavs di tutti quei cuori che, nel sud-ovest dell’Ohio avevano trepidato per le sorti dei figli prediletti di South Beach. Con qualche significativa eccezione: già allora un’ampia fetta di appassionati del nord dell’Indiana apparteneva ai Chicago Bulls. E con un ultimo periodo caratterizzato da più bassi che alti la tendenza non sembra destinata ad invertirsi tanto presto: non il massimo per una squadra che prende il nome dallo stato in cui si trova. Una situazione che si riscontra ad est dello stato di New York, con una più che discreta rappresentanza di tifosi Celtics a rinverdire la storica rivalità con i Knicks (retaggio dell’Holtzman vs Auerbach del tempo che fu) al confine con il Massachusset. Butta male, invece, per i Brooklyn Nets: penultima per quanto riguarda la loyalty dei propri fan secondo il power ranking del 2016 di TheSportster, la franchigia di Prokhorov (che, non a caso, sta provando a vendere già dal 2015) è destinata a perdere ulteriori consensi locali visto che «la gente sta rapidamente scendendo dal carro una volta realizzato che a Brooklyn non si vincerà almeno per un pò». Confermando, quindi, anche lo studio dell’Università di Harvard sui fattori che influenzano la lealtà di un tifoso verso la propria squadra. Con tanto di classifica, ovviamente.

https://www.youtube.com/watch?v=eKlffzP5WgY

Oddio non è che la fidelizzazione prima andasse meglio…

 

Va meglio nel Wisconsin, dove comunque i Bucks sono costretti a dividersi con gli onnipresenti Bulls (una delle squadre trasversali della NBA – merito, manco a dirlo, di MJ – e quella con la più alta media di spettatori:oltre 21mila a sera nel 2016/2017) e in Canada, dove i Raptors regnano incontrastati in attesa che le voci di un ritorno di Vancouver trovino conferma. Non ingannino, poi, i casi di Hornets, Magic e Hawks, ovvero realtà a forte connotazione territoriale solo per via dei non eccelsi risultati dell’ultimo lustro (e per l’assenza di superstar nel senso più puro del termine) che hanno impedito una fidelizzazione che varcasse il microcosmo locale.

Ad Ovest ci si avvicina molto di più alla nostra visione (e versione) del tifo. Detto dei Lakers, che continuano ad essere “The America’s Team” nonostante la feroce rimonta dei Warriors (il team dei bandwagoners per eccellenza, la squadra globale e globalizzata di default, che accende le fantasie dei tifosi di tutto il mondo e attirandone sempre di nuovi) e la faticosissima opera di ricostruzione dal basso, la situazione è cristallizzata: in California, più dei Clippers (tanto più con l’esaurimento dell’onda lunga dell’effetto Paul), tiene duro e bene l’enclave Kings, in Texas le tre macro-aree risultano equamente divise tra Spurs, Mavs e Rockets (ma occhio alla presa che il Barba esercita su giovani e giovanissimi), il resto appartiene poco ai Blazers (che pagano la decennale assenza della rivalità con i Sonics) e tanto ai Thunder, resilienti al massimo all’addio di KD35 e che raccolgono i frutti di un progetto nato addirittura nel 1995 dopo la tragedia del Federal Building, quando si decise che, presto o tardi, una squadra professionistica sarebbe dovuta arrivare ad OKC.

Siamo dunque arrivati al momento in cui si celebra il funerale del campanilismo e del tifo come senso di appartenenza a qualcosa che va oltre lo sport? Non necessariamente: si tratta di prendere coscienza del cambiamento socio-culturale avvenuto negli ultimi vent’anni, favorito dall’espansione senza sosta di un mercato in continua evoluzione (e dalle potenzialità illimitate) e inevitabilmente accelerato dall’arrivo dei social media e dalle nuove forme di comunicazione in tempo reale. Oggi tutti possono vedere tutto in qualunque momento, senza la necessità di trovarsi nel luogo e nel momento esatto in cui James, Curry, Westbrook o Durant fanno qualcosa che spinge qualcuno a iniziare a tifare per questa o quella squadra. Non è (più) possibile fare dei distinguo o analizzare la fenomenologia del tifo NBA utilizzando categorie fuori dal mondo e dal tempo: da quelle parti il tifoso è tifoso tout court, indipendentemente da luogo di nascita e stato di appartenenza, dettaglio importante eppure quasi secondario. Il resto, come sempre, è tutta una questione di prospettive. Non necessariamente le nostre.

Tags: Cavalierscelticsclippersgolden state warriorsLeBron Jamesnbatifosi
Claudio Pellecchia

Claudio Pellecchia

Giornalista di e per sport, sogna di risvegliarsi un giorno in un mondo dove Shaq e Kobe non hanno mai litigato e Tracy McGrady ha una schiena normale. Autore di libri a tempo (molto) perso, finge di capire qualcosa di basket qui, su Rivista Undici ed Esquire.

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