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Never understimate the heart of Klay

Alessandro Pagano by Alessandro Pagano
6 Settembre, 2019
Reading Time: 6 mins read
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Se un giorno la National Basketball Association decidesse di scrivere un libro di storia, i nomi che andrebbero riportati sarebbero tantissimi. Sarebbero tantissimi perché oltre ai volti noti, oltre a chi ha reso grande questa lega con giocate, momenti unici, attimi che restano scolpiti più che scritti sulle stesse pagine di questo libro, ci sarebbero capitoli che andrebbero dedicati a chi è rimasto immortale in maniera inconsueta. Una parte di questo ideale libro sarebbe dedicata alla Houston della metà degli anni ’90, ai magnifici Rockets condotti e motivati da uno dei centri più spettacolari che la NBA ricordi: Hakeem Abdul Olajuwon.

Le storie, le leggende, i miti che circondano quegli Houston Rockets sono innumerevoli ma vale la pena fare un salto in un paio di esse. Vale la pena, ad esempio, ricordare chi era alla guida tecnica di quella squadra che mise a segno un memorabile repeat nel ’94 e nel ’95. In panchina sedeva tale Rudolph, detto Rudy, Tomjanovich. Un nome che, probabilmente, se non seguite la NBA da prima degli anni ’70 non vi dirà un granché. Ha studiato e spiegato pallacanestro a Michigan State, dove ha chiuso.i suoi 3 anni a 30.1 punti di media e 15.7 rimbalzi ad allacciata di scarpe. È entrato in NBA dalla porta principale – seconda scelta al Draft del 1970 dei San Diego Rockets – e per 11 anni ha vestito la maglia della franchigia prima californiana e poi texana. È coinvolto in quello che la NBA ricorda tristemente come “The Punch”. Era il 9 dicembre 1977, Forum di LA, Rockets contro Lakers. Tafferuglio che coinvolgeva Kareem Abdul-Jabbar, Kevin Kunnert e Kermit Washington. Per sedare la rissa arriva Tomjanovich, il peacekeeper per eccellenza. Washington va con un gancio che finisce fuori portata e colpisce Rudy in pieno volto. Diagnosi: frattura setto nasale, frattura dello zigomo, spostamento della mandibola, commozione cerebrale con annesso movimento delle ossa del crani di 8 millimetri. Serviranno 3 operazione per rimettere in sesto il povero peacekeeper di turno.

Tomjanovich non si arrende, 53 partite dopo torna e, dopo 5 convocazioni all’All-Star Game e a 10 anni dal ritiro da giocatore, i Rockets gli affidano le chiavi della squadra. Sarà l’artefice di una delle dinastie più incredibili di sempre. Quei Rockets riuscirono a ripetersi dopo l’impresa del 1994, battendo in finale i Magic di Shaq e Penny. Lo spettacolare centro da Lagos spazzò via l’astro nascente O’Neal e portò a casa il secondo anello e il titolo di MVP, spiazzando ogni pronostico. Dopo il clamoroso sweep, coach Tomjianovic prese il microfono e inviò un messaggio chiaro e forte ai tifosi, a Houston e al mondo intero, forse neanche consapevole del fatto di pronunciare una frase che rimarrà scolpita nell’eternità:

In the world there are believers and then there are non-believers. For all of you non-believers out there, I have something to say to you: don’t ever underestimate the heart of a champion.

Nel mondo ci sono i credenti e poi ci sono i non credenti. Per tutti voi non credenti lì fuori, ho qualcosa da dirti: mai sottovalutare il cuore di un campione.

https://www.youtube.com/watch?v=5-1jgNhopNo

Da quel 14 giugno 1995 – data in cui coach Tom ha pronunciato il suo manifesto ideologico – sono passati esattamente 15.334 giorni ma non sembra essere cambiato molto in termini di valori, in termini di devozione nei confronti del Gioco: solo chi non sottovaluta la componente agonistica e “spirituale” della pallacanestro avrà maggiori chance di successo. Non è poi così antiquata la visione di Tomjanovic se proviamo ad applicarla a questa edizione delle NBA Finals. Di certo il “peso del cuore” non potrà mai essere preciso ma una volta sul parquet si può facilmente individuare chi ne mette di più a servizio della squadra. I Warriors sono avanti 2-0 e arrivano in Ohio con un considerevole vantaggio mentale, oltre che tecnico e di inerzia. Questo vantaggio è stato costruito sulla forza offensiva di Kevin Durant, sull’estro di Stephen Curry, sulla spinta della Oracle Arena ma soprattutto è stato edificato grazie al cuore di Klay Alexander Thompson.

La carriera di Klay Thompson è cambiata con l’arrivo di Kevin Durant e non in termini numerici ((I dati numerici sono incredibilmente simile a quelli della stagione precedente, nonostante si possa pensare che il numero dei tiri sia diminuito. Nella stagione 2015-16 Thompson ha tirato 1.386 volte mentre in questa ha tirato appena 10 volte in meno, giocando due gare in meno (80 vs 78))).  L’apporto che Klay dà ai suoi Warriors è per certi versi molto diverso a quello che forniva nelle passate stagioni. L’inserimento di KD è chiaramente un tentativo di incrementare l’arsenale offensivo ma la perdita di Harrison Barnes ha causato un vuoto difensivo non indifferente e realisticamente non colmato dalla dirigenza. Coach Kerr, coadiuvato da coach Brown, ha saputo lavorare sulla testa di Thompson che nel giro di un anno ha saputo migliorare le sue già notevoli qualità difensive. La rapidità dei suoi piedi sembra essere duplicata e riesce ad essere strategicamente pericolo su chiunque accetti di marcare: ha difeso contro Love, ha aiutato su James, ha tenuto a bada Irving e ha sporcato tutti i tiri di Smith. Il career low di Gara 1 (3/16 per 6 punti totali) non è sintomo di mancato coinvolgimento ma di una diversa attenzione, di un ruolo che sta cambiando per il bene della squadra. Nella stessa G1 a cui facevamo riferimento, Thompson ha preso in single coverage 6 volte Irving (concedendogli un solo canestro), 3 volte Love, 2 volte James e una volta Smith, riuscendo a contestare e far sbagliare tutti e 6 i tiri presi dall’attacco e abbassando le loro medie di 8.7 punti percentuali.

https://www.youtube.com/watch?v=gCzRiBgPsUQ

Coach Brown, che ha abdicato in G2 per far spazio al capo allenatore rientrante Steve Kerr, ha ammesso: “Abbiamo chiesto a Klay di fare tantissimo dal punto di vista difensivo durante questi playoff e lui ha eseguito il suo compito come se fosse il migliore del mondo in quel ruolo. Tutto questo mentre in attacco continua a muoversi, a giocare nel modo giusto. È questo che amiamo di lui”. Quanto di tecnico ci sia nella difesa di Thompson è evidente dal video di cui sopra: la rapidità di piedi, l’equilibrio del corpo e la possibilità di essere sempre in movimento con gli arti superiori ed inferiori lo rendono letteralmente un incubo per qualsiasi tipo di attaccante. Quanto, invece, c’è di cuore in queste prime due partite di finale, non è neanche lontanamente quantificabile.

In G2 è riuscito a trovare la strada giusta, quella che lo ha portato non solo ad essere imprevedibile nella propria metà campo, ma ad essere anche pericoloso nella metà campo avversaria. I suoi 22 punti con appena 12 tiri e 4 triple mandate a bersaglio sono la perfetta polaroid di un giocatore che ama essere funzionale, qualsiasi sia il ruolo da assumere per arrivare all’obiettivo comune. Essere l’ago della bilancia significa ricoprire grandi responsabilità e solo un campione come Klay sa farlo nella maniera corretta. Non è un caso che il miglior plus/minus – da sempre indicatore di equilibrio della squadra – appartenga a Thompson, nonostante ci siano due giocatori con oltre 30 punti.

http://gph.is/2ry2XwK

Essere il barometro difensivo dei Warriors è un compito arduo, soprattutto se si considera la potenza da fuoco nella metà campo dei wine-and-gold. Ma Klay ha sempre detto di volere il titolo, qualsiasi sacrificio esso richieda, qualsiasi cosa ci sia da fare. Coach Kerr – assente dal palcoscenico principale fino a G2 – è sempre stato presente in questa sua trasformazione, motivando un giocatore che non ha bisogno di troppe spiegazioni per operare come gli viene detto, come una sorta di soldato che vuole vincere la guerra anche se c’è da versare tanto sangue. La componente emotiva spinge i campioni dall’inestimabile cuore come Thompson ad andare oltre ogni cosa, oltre ogni difetto e oltre ogni idea di resa. In 12 mesi Thompson è passato da essere il primo che alzava bandiera bianca quando si era sotto di 20 – basti ricordare i due episodi a Cleveland delle scorse Finals – e il primo ad “irridere” gli avversari quando si era sopra.

I Cleveland Cavaliers non hanno sottovalutato il cuore di Klay Thompson, onorando il talento del figlio di Mychal e difendendo forte su qualsiasi azione il numero 11 dei Warriors minacci la difesa. Il problema dei Cavs è, però, ben diverso, perché si può arginare la potenza di Golden State ma si può solo parzialmente limitare l’intelligenza cestistica di giocatori nati per questo Gioco. Non ce ne vogliano Kevin Durant, Stephen Curry o Draymond Green ma il giocatore più intelligente sul parquet è e resta Klay Thompson.

Aver contestato dei tiri non ti porta matematicamente alla vittoria di un titolo. Aver difeso contro giocatori di stazza inferiore o superiore non ti rende un difensore di ruolo. Aver contribuito in attacco e in difesa a due vittorie fondamentali – e schiaccianti – della tua squadra in un contesto di NBA Finals non ti rende quello che Nietzsche definiva un “superuomo”. Avere il cuore di Klay Thompson, invece, ti aiuta a vincere dei titoli NBA perché, riadattando il concetto espresso nel 1995 da Rudy Tomjanovich, never understimate the heart of Klay.

 

Tags: CavaliersfinalsKlay ThompsonTomjanovicwarriors
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