“Madre de Dios, quién es quel hombre señor?” pronuncia un prigioniero messicano. “La mano sinistra del Diavolo…” risponde con il solito ghigno sul volto Trinità, altresì noto come Terence Hill. Avrete rivisto questa scena più e più volte ed è l’esatto istante in cui Bambino, o se preferite lo sceriffo interpretato da Bud Spencer, ingaggia un duello con tre scagnozzi del Maggiore Harriman nel film cult di Enzo Barboni dal titolo “Lo chiamavano Trinità”. Di mancini rapidi come Carlo Pedersoli in quello storico western comico ne esistono tantissimi ma uno nelle ultime ore torna a far parlare di sé: ha il naso piuttosto pronunciato – per questo motivo dalle sue parti lo chiamano “El Narigón” – e viene da Bahia Blanca, un centro di 350.000 anime che si affaccia sull’Oceano Atlantico. Il suo nome è Emanuel David Ginobili Maccari ma tutti, ma proprio tutti, lo conoscono come Manu, la mano sinistra del diavolo.
Nel quinto atto della serie texana tra Rockets e Spurs probabilmente si è vista la più bella partita di questi playoff, con due squadre che non volevano saperne di fare la fine di chi si trovava dall’altra parte della pistola di Bambino. È stato necessario un overtime per stabilire chi dovesse crollare e alla fine ha perso il duello chi ha dalla sua quello che in terra argentina chiamano un hombre vertical, ovvero sia un uomo tutto d’un pezzo. Gli Spurs per i 5 minuti di extratime hanno dovuto fare a meno di Leonard, giocatore che, dati alla mano, è molto più che decisivo per i nero-argento: giocare forse il momento clou della serie senza l’uomo da 27.8 di media in 36.8 minuti sul parquet, con tanto di 7.7 rimbalzi e il 47% da 3 punti ad allacciata di scarpe, è stato un colpo che Popovich ha risentito. Lo sfogo incontrollato che ha avuto alla fine dei regolamentari nei confronti di Pau Gasol – dopo un’incomprensione che forse è costata la vittoria agli Spurs nei canonici 48 minuti – è dovuta sì all’errore del catalano ma anche all’idea di dover giocare un tempo supplementare senza l’arma tattica più importante. All’interno di questo quinto atto, però, c’è un personaggio che non è sempre al centro delle discussioni moderne, forse perché non appartiene più ad un mondo così come lo vediamo oggi.
Manu Ginobili è con pochi dubbi il più forte mancino che la NBA abbia conosciuto e abbia avuto modo di ammirare, perché “quello che Calvino faceva con la penna” l’argentino lo fa sicuramente con un pallone da basket in mano. Smette, non smette, resta ancora, si ritira: i classici tormentoni che accompagnano una leggenda di una delle franchigie più all’avanguardia di sempre sul triste viale del tramonto, quello costellato da infortuni, da stop, da soste ai box per inserire un po’ di olio in ingranaggi un po’ logori. Eppure lo stesso 39enne (compirà 40 anni il 28 luglio) che non è neanche accostabile a quello che dieci anni fa dominava mentalmente e fisicamente questa lega riesce ancora a stupire. Ancora. Otra vez, come direbbero i suoi concittadini.
Non ci soffermiamo sulle penetrazioni che hanno tagliato in due la difesa di Mike D’Antoni, nemmeno su quella schiacciata che ha fatto esplodere – e tornare indietro nel tempo – l’AT&T Center; meriterebbe qualche approfondimento di più la stoppata che ha tenuto in serbo per l’altro mancino, una sorta di Wild Cat Hendricks con la canotta dei Rockets e il #13 stampato sul retro. È la giocata della gara senza girarci attorno, anche perché il duello tra Harden e Manu è già andato in scena nella quinta partita dei playoff del 2012: Spurs vs Thunder, Western Conference Finals.
Già in quella serie i due mancini si scambiarono malagrazie e ad uscirne vincitori furono proprio i Thunder di Westbrook, Durant e Harden (6th man di lusso se ce n’è uno). Manu aveva qualcosina di arretrato e, a distanza di 5 anni, si riprende il tutto con gli interessi.
Perché non ci soffermiamo su quanto detto? Semplice: di giocate da leggenda Manu ne ha a quantità industriale e se torniamo indietro nel tempo, specie negli ultimi 2/3 anni quando le sue condizioni fisiche sono sempre precarie, troviamo sempre all’interno di una serie di playoff una sua zampata, un suo morso, un suo segno indelebile. Memorabile fu quello in G5 contro i Miami Heat nel 2014, quasi come se la massima rappresentazione della Generacion Dorada volesse dirci che la quinta partita è sua e di nessun altro. Quello che, però, fa impressione dopo 208 partite di post-season, dopo 5871 minuti giocati a livello di playoff, è la selezione dei colpi e dei momenti che sceglie per infliggerli. In un altro episodio della saga dei film di Enzo Barboni, Terence Hill – la mano destra del diavolo – è al saloon per calmare gli animi di tale Murdock che aveva “offeso la legge” definendo la madre dei due pistoleri come una donna dai facili costumi. In quella occasione, Murdock conta i colpi rimanenti nella pistola di Terence Hill e gli comunica che non sono sufficienti per uccidere tutti i presenti al saloon. Manu utilizza la stessa saggezza che idealmente usa Mario Girotti per sedare quella rissa, concentrandosi sui colpi e scegliendo il momento in cui far partire lo sparo. È questa la capacità che anno dopo anni spaventa: l’essere in grado di saper riconoscere le cartucce a propria disposizione e usarle tutte nel modo giusto.