Il sistema di voto dell’All Star Game è ormai da tempo argomento di dibattito tra gli appassionati. Quasi ogni anno, almeno un giocatore meritevole viene snobbato e non convocato, lasciando posto ad atleti decisamente meno validi. Il problema più discusso è se – e in quale forma – coinvolgere i fan nella scelta dei giocatori. In questa stagione, la NBA ha modificato il processo di selezione: giocatori e media rappresentano ora il 50% dei voti, mentre il restante 50% va ai tifosi. Questo cambiamento delle regole avrebbe dovuto, nell’idea della lega, ristabilire un equilibrio tra le parti. Tuttavia, molti giocatori non sembrano essere soddisfatti di come stiano andando le cose finora, avendone peraltro ben donde. Non è infatti normale che Anthony Davis, per citarne uno, sia quarto nel totale dei voti dei fan per il frontcourt ad Ovest, ritrovandosi più in basso in classifica di Zaza Pachulia.
“Perchè dovrebbe essere sbagliato?”, chiederà qualcuno. Ebbene, in caso ci fosse bisogno di sottolinearlo: Davis ha, ad oggi, una discreta media di 28 punti, 12.1 rimbalzi e lo satus di superstar. Pachulia? 5.9 punti, 6 rimbalzi e doppia-cifra-abbondante di blocchi irregolari a partita. Paradossalmente, proprio questa mediocrità è la sua arma migliore: lo rende simpatico agli occhi dei tifosi che, dimenticandosi che l’All Star Game sia La partita delle stelle, decidono di premiare la modestia del georgiano piuttosto che il talento e le capacità del primo.
Il sistema di voto All Star non funziona. E la ragione di ciò sono i tifosi.
I fan hanno ripetutamente votato giocatori in base a tutto meno che il merito sportivo e probabilmente dovrebbero essere coinvolti sempre meno nelle selezioni. L’anno scorso Damian Lillard, decimo nella classifica delle guardie ad Ovest, ha ricevuto meno voti di un veterano come Manu Ginobili. L’argentino, per quanto romantico ed emozionante, resta pur sempre un giocatore a fine carriera. Chiaramente giocatori come “The Magician” meritano voti e rispetto, ma in un sistema efficiente non possono avere più voti di un Lillard da 25+7, nonché condottiero solitario alla Dangerous Man di una non-squadra fino alle semifinali di conference.
Anche questa stagione è stata caratterizzata da voti “sbagliati”. La democrazia non è perfetta. Quando il popolo è chiamato alle urne, le scelte vengono determinate da mille motivazioni diverse ciascuno. Il voto comune porta a voti di cuore, voti di pancia e voti di merito. E se da un lato è vero che è difficile determinare i giocatori “giusti” per l’ASG, perché bisognerebbe prima definire il concetto di “giusto”, è perlomeno evidente che non sempre i voti siano dati ai giocatori più “adeguati”. Adeguati non all’ASG in quanto show, bensì in quanto ordine di merito per chi, durante i mesi precedenti al fatidico week end di metà febbraio, si è distinto per quanto riguarda il gioco del basket. Period.
All’enorme incremento di popolarità della lega è però seguito quello della partita delle stelle, che viene ora intesa come strumento per la sponsorizzazione del gioco. In pratica, è come se la NBA fosse pagata dai broadcasters per produrre uno spot pubblicitario della durata di tre giorni, con un eco mediatico di mesi interi. Ma se, come è stato finora, le presenze All Star sono utilizzate come un unità di misura per pesare la carriera di un giocatore, il sistema odierno non può esser considerato valido. Non è un caso, difatti, che ai primi tre posti “all-time” per apparizioni alla partita delle stelle ci siano, in ordine: Kareem, Kobe ed il trio di lunghi più dominanti degli ultimi vent’anni abbondanti: Duncan, Garnett e Shaq. Essere un All Star è sinonimo di grandezza, ma anche di continuità nella grandezza. Essere ripetutamente votato tra i migliori della lega è un traguardo che in pochi riescono a raggiungere. Ogni selezione equivale ad una sorta di medaglia al valore, ad un ipotetico grado in più sulla divisa. Il numero di selezioni All Star è sempre stato un chiaro indicatore riguardo la qualità della carriera di un giocatore, ma questa accezione, tanto significativa quanto apprezzata, si sta perdendo con l’avvento dei nuovi sistemi di voto. Le 14 selezioni di Jordan, o le 10 di Bird e Russell, non sono solo numeri di condimento da affiancare agli anelli ed ai titoli di MVP. Sono un segno indelebile del loro valore e dell’impatto che hanno avuto su questo gioco. Permettere ad alcuni atleti di far parte dei roster All Star è una mancanza di rispetto anche nei confronti di chi, per arrivarci con merito, ci si è dedicato una vita intera.
Ad oggi, i giocatori non hanno preso sul serio il processo.
Dalla loro, i giocatori hanno incentivi nei contratti, possono guadagnare bonus qualora scelti per la partita. Questo porta alcuni atleti ad imbandire delle vere e proprie campagne mediatiche, col fine di strappare voti ai fan. Inoltre, la NBA permette di votare attraverso i social media, locus amoenus((Luogo idealizzato e piacevole)) ove trovare iniziative di voto collettivo “rivedibili”. Spesso i fan prendono la scelta dei giocatori come uno scherzo. C’è una pletora di atleti che dovrebbero avere più preferenze di Zaza, ma la volatilità del voto degli appassionati è incalcolabile, in ogni momento potrebbe nascere una social-rivoluzione per portare alla ribalta il Clarkson (Filippine) o il già citato Pachiulia (Georgia) di turno. O un Danilo Gallinari (Italia). Dal momento che essere All-Star è sinonimo di grandezza e compensi, il processo di selezione dovrebbe essere esclusivamente basato sulla meritocrazia. E se i fan non sono in grado di esprimere un giudizio imparziale, allora forse è meglio che non esprimano alcun giudizio.
Negli ultimi anni, numerose stelle NBA hanno preso parte ad una campagna anti-media, con Kevin Durant elevatosi ad ambasciatore. Campagna votata a sostenere che i media siano meno informati rispetto ai giocatori e che i giornalisti si innamorino dei “nomi più sexy”, del personaggio più vendibile invece di esprimere in voto il valore del campo. La Lega, quest’anno, ha però pubblicato i risultati dei voti di tutte e tre le categorie di votanti, permettendo così un confronto tra le parti. E’ apparso chiaramente che uno dei due gruppi non sia interessato al processo di selezione. In quale altro modo si spiegherebbero tre voti a Ben Simmons, senza che quest’ultimo abbia ancora messo piede in campo, o un voto a Mo Williams, sebbene in questa stagione sia più alto il numero delle squadre in cui ha militato (5) rispetto ai minuti complessivamente giocati (0)?
I giocatori hanno espresso almeno un voto per 283 atleti diversi. Eppure si dovrebbero votare i cinque più meritevoli. Ci sono davvero 283 papabili candidati? Tantini.
I media hanno invece scelto da un paniere complessivo di 32 giocatori. E no, Gallinari non è tra questi. I nomi meno forti erano talenti del calibro di Wade e Whiteside.
L’affluenza alle urne dei giocatori, tenendo conto di tutti i possibili votanti, non ha raggiunto il 70%. La verità è che a molti giocatori non interessano i voti, tanto meno votare.
Nowadays
L’All Star Game sta diventando sempre meno rilevante, un’esibizione che non ha nulla a che vedere con quello che doveva essere in principio. Guardare una partita di basket senza difesa non è la cosa più eccitante del mondo. Avere uno Slam Dunk Contest di 48 minuti con difensori che si scostano per non interferire con le azioni degli attaccanti, è tutto meno che divertente. Ma nonostante i problemi nella scelta dei giocatori, dal momento che il gioco in realtà conta poco, la Lega non ha un vero interesse nel mutare questo procedimento in breve tempo.
Ma c’è il bisogno di cambiare. La NBA ha dimostrato grande lungimiranza modificando il processo di voto di quest’anno per tagliare fuori alcuni trash-candidati “dei fan”. Senza ciò, Zaza Pachulia e Dwyane Wade, per citarne due, sarebbero immeritatamente in quintetto a New Orleans. Ma il sistema ha ancora bisogno di lavoro. Una possibilità potrebbe essere quella di togliere il voto ai giocatori del tutto ed utilizzare i media come indicatori contro gli errori dei fan. Un’altra opzione potrebbe essere quella di utilizzare un processo più selettivo, limitando ogni squadra ad un certo numero di rappresentanti fissi, per esempio due/tre per squadra scelti dai media o da giocatori, tra i quali poi far scegliere i fans. Oppure, ancora, imporre requisiti minimi (minuti/partite giocate) per l’eleggibilità di un giocatore o abilitando la NBPA a determinare un comitato di voto.
Le possibilità sono tante, ma il denominatore comune dev’essere la qualità, aspetto dal quale la lega più potente del mondo non può pensare di prescindere. Le modalità e le occasioni per coinvolgere i fan sono infinite, senza che per forza vadano ad intaccare il livello del gioco e dei giocatori presenti nei quaranta minuti sul parquet più visti dell’anno.
Inoltre, osservando l’altro lato della medaglia, pare evidente come di questo passo a perderci sarà la stessa NBA, costretta a dover offrire un prodotto scadente e non intrattenente. Esattamente lo stesso problema che attanaglia le altre importanti leghe sportive americane: NFL e MLB, dove rispettivamente il Pro Bowl ed il Midsummer Classic contano pressoché zero e sono seguiti (o meglio non seguiti) di conseguenza. Al contrario, la NHL è stata capace negli anni di reinventare un format in grado di attrarre di nuovo i fan. Come? Rialzando il livello del gioco espresso, istituendo un premio di $1 milione di dollari per la squadra vincitrice, da distribuire ai giocatori.
L’intreccio di molteplici interessi e strategie di marketing rende difficile un cambiamento di rotta repentino. Ma la lega sportiva migliore al mondo non può auto privarsi di uno spettacolo così importante quale l’All Star Game.
La partita delle stelle è ancora, nelle nostre menti, ricordata come la massima esibizione di pallacanestro a livello globale. E a volte “se vogliamo che tutto rimanga com’è, c’è bisogno che tutto cambi”.