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The Lithuanian dream

Marco Lo Prato by Marco Lo Prato
6 Settembre, 2019
Reading Time: 6 mins read
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ATTO I – Dal nulla, tutto

Sarunas Marciulonis e Donnie Nelson stavano camminando per la periferia di San Francisco quando, finalmente, si imbatterono nel numero civico che andavano cercando: davanti a loro un anonimo garage. Un po’ scoraggiati, entrarono.

Una volta tirata su la saracinesca del box, si spalancò di fronte a loro uno studio di registrazione modernissimo in cui i Grateful Dead, storico gruppo rock americano, stavano provando qualche cover dei Beatles. I membri della band smisero di suonare e, fra uno spinello e l’altro, si convinsero della bontà del sogno di Marciulonis, allora giocatore dei Golden State Warriors: far partecipare la Lituania, resasi da poco indipendente dall’URSS, alle Olimpiadi del 1992.

La situazione, nel neonato paese europeo, è tragica: dopo la proclamazione d’indipendenza dell’11 marzo 1990, il paese lituano è afflitto da una pesantissima inflazione e da un altissimo tasso di disoccupazione. Le spaccature politiche si fanno sempre più evidenti fino ad arrivare allo scontro fra presidente del Parlamento e Primo Ministro. Nel gennaio del ’91 scoppiò un conflitto armato fra il popolo lituano e alcune milizie dell’Unione Sovietica che ebbero la poco felice idea di invadere i confini della repubblica ribelle per riprenderne il controllo. La situazione era davvero instabile e Marciulonis, per tentare di riconferire unità al suo popolo, affidò al potere catartico dello sport il ruolo di collante per una nazione che barcollava poco dopo essersi liberata dalle catene dell’URSS e iniziò a cercare finanziatori per supportare la Lituania alle Olimpiadi di Barcellona, quelle del Dream Team e di Drazen Petrovic.

Queste sono le premesse per cui, in quel garage di San Francisco, andò in scena una delle più improbabili conversazioni di sempre, fra cantanti psichedelici e un giocatore NBA. Il discorso della band si concluse grossomodo così: “Amico, tu sei uno per cui la libertà e l’indipendenza sono tutto, come per noi, e ci piaci un sacco, perciò vi daremo una mano”. Che concretamente significò un assegno di cinquemila dollari e la cessione dei diritti su una maglietta che i Grateful Dead fecero per un concerto a Boston, ridisegnata con i colori simbolo della Lituania: il rosso, il giallo e il verde. Questi fondi, uniti a parte dello stipendio che Marciulonis (che all’epoca prendeva un milione di dollari) versò per la causa, furono sufficienti per spedire la squadra lituana a Barcellona.11954624_1635512476726974_4623991117500928318_n

 

ATTO II – La Rinascita

L’Olimpiade della Lituania comincia con quattro vittorie su cinque nel girone eliminatorio e la conseguente facile qualificazione ai quarti di finale, dove ad attendere Marciulonis e compagni c’è il Brasile di Oscar Schmidt. Non è un caso che i lituani abbiano vita facile durante i primi momenti del torneo: basti pensare che a Seul ’88, quando l’URSS sconfisse gli Stati Uniti in finale, quattro dei cinque titolari del quintetto dell’Unione Sovietica erano lituani. Così anche il Brasile deve arrendersi allo schiacciasassi lituano che grazie al gigante Sabonis, alle prodezze di Marciulonis e ad una spinta popolare sempre più forte arriva fino alla semifinale, dove la squadra dei Grateful Dead trova il Dream Team.

Ricordando quei momenti, Marciulonis è estremamente sincero: “Non ci interessava vincere o perdere. Ci bastava semplicemente non perdere la faccia”. Il Dream Team del resto è davvero inarrestabile e spezza – prima ancora del gioco – la fiducia in sé stessi di chiunque avversario grazie a giocate spettacolari e ad un intensità mai vista prima sul campo di gioco. Leggendari i cinque minuti in cui Michael Jordan decise che Marciulonis non avrebbe toccato un pallone, tanto da appiccicarglisi addosso: la guardia dei Golden State Warriors scomparì dal gioco e la Lituania si pietrificò, incapace di pensare senza la sua testa migliore. Chuck Daly, storico allenatore dello squadrone americano, temeva soprattutto i centimetri di Sabonis, monumentale centro che – come ricordato anche da Jack McCallum, autore del libro Dream Team – al culmine della sua carriera era decisamente più forte di Ewing e Robinson, i suoi avversari diretti di quella partita. Ma la gara filò via in scioltezza e Team USA regalò agli spettatori forse la partita più devastante di sempre: nove dei dodici giocatori sono andati in doppia cifra, guidati da un Michael Jordan da 21 punti (nota a margine: MJ la mattina stessa della partita aveva giocato 36 buche a golf). Il primo parziale statunitense fu di 31-8 e la Lituania alzò bandiera bianca molto in fretta, con il risultato finale che segnò un iconico 127-76.

La finale per il 3/4° posto aveva però ancora più valore agli occhi dei lituani: alle Olimpiadi infatti, la Lituania era l’unico paese dell’URSS ad essersi presentato autonomamente. Tutte le altre nazioni facenti parte dell’ormai ex Unione Sovietica si erano raggruppate nella Squadra Unificata che, per ogni lituano, rappresentava niente meno che il nemico. Non era quindi fondamentale vincere. Era semplicemente l’unica opzione disponibile.

I giocatori, prima di quella partita, erano tesissimi. Sapevano, come in ogni grande rappresentazione sportiva, di rappresentare non solo sé stessi, ma un intero popolo che scalpitava per un nuovo inizio. Quale modo migliore per ricominciare se non battendo il proprio passato?

Non fu una partita semplice, per la Lituania. Nel girone eliminatorio di cinque match l’unica sconfitta era arrivata proprio contro gli Stati Unificati. Ma la sera dell’otto agosto 1992, i lituani scendono in campo semplicemente con qualcosa di più degli avversari: non è tecnica, non è tattica, è semplicemente una spinta intangibile di un’ideale di libertà che ti fa saltare più in alto, correre più veloce. E, soprattutto, fare canestro quando conta. Perché la partita rimane in bilico fino all’ultimo quarto, quando il punteggio è in parità: 55 pari dopo trenta minuti. Nell’ultimo round tuttavia, il duo Sabonis-Marciulonis esce di nuovo allo scoperto e bombarda gli avversari, consegnando la vittoria alla Lituania. Suona la sirena e comincia la festa: i giocatori si accasciano al suolo e si concedono un pianto liberatorio. Non tanto perché quella partita l’hanno vinta, piuttosto perché non l’hanno persa. Scaricano l’adrenalina nelle lacrime e si appropriano delle magliette psichedeliche che li hanno fatti diventare gli idoli di Barcellona. Con quelle si preparano a salire sul podio, mentre di Sabonis si perdono le tracce.

 

ATTO III – Manca qualcuno…

Le telecamere di tutto il mondo sono indirizzate verso il gradino più alto del podio, dove i vari Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird stanno addentando la medaglia d’oro vinta annientando qualsiasi avversario gli si fosse parato davanti, per ultima la Croazia. Mentre il Dream Team esulta e viene coccolato dallo sguardo del pubblico presente, per concludere la nostra storia dobbiamo spostarci verso il margine dell’inquadratura: la squadra lituana è tutta riunita sul gradino più basso della pedana, fiori in mano e medaglia al collo. Per dire l’impatto culturale di quella t-shirt, basti pensare che con i proventi delle vendite del successivo quadriennio, il comitato olimpico lituano poté finanziare l’intero soggiorno della squadra di basket ad Atlanta ’96.

Una cosa assolutamente illogica, ma così doveva essere in quell’agosto di magia a Barcellona. Si iniziano a scattare le foto di celebrazione, ma su tutti spicca l’assenza del gigante Sabonis: dov’è finito il giocatore che diventerà tre anni dopo membro dei Portland Trail Blazers? Per raccontare quest’ultimo spicchio di favola lituana, specifico che dobbiamo abbandonare il campo sicuro delle certezze e consegnarci alla mera leggenda di quel periodo: una volta finita la partita, con la Lituania in festa, i giocatori si concedono alla pazza gioia. Si racconta di un Marciulonis che entra vestito in doccia e ci rimane per più di mezz’ora, mentre di Sabonis si parla come del re della festa. Beve, sfida chiunque a braccio di ferro, insieme agli altri inonda di champagne il presidente della Lituania Landsbergis e poi, appunto, scompare dalla circolazione fino addirittura a saltare la premiazione. Dov’è finito Arvydas? Si dice che lo ritrovarono due giorni dopo la premiazione nello spogliatoio della Squadra Unificata femminile che dormiva con un sasso, attorniato di belle ragazze. E, come direbbe Woody Allen, chi siamo noi per rovinare una bella storia con la verità? Tutto sommato è il giusto finale per l’avventura di una squadra leggendaria.lituaniaolimpiadi1992

Tags: Chuck DalyDream TeamGrateful DeadLituaniaMarciulonisMichael JordanSabonisURSS
Marco Lo Prato

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