-Illustrazione di Sara Filippini-
Lo United Center non è un’arena qualunque per Joakim Noah e Derrick Rose. Ci sono state notti in cui gli oltre ventimila spettatori avrebbero seguito Jo oltre le porte dell’Inferno, e altre in cui Derrick li ha portati in Paradiso con il suo volo leggero. “La NBA è un business, lo capisco, e non posso pensare al passato” ha risposto Rose ad una domanda sulla partita del 4 Novembre a Chicago. È un business, sì, ma quando lui e Noah entreranno nel palazzetto ancora deserto sarà impossibile non ricordare i suoni e le immagini delle battaglie passate: gli “oooh… aaah!” ad ogni invenzione di Derrick e l’urlo assordante scatenato dalle hustle plays di Joakim. Non sono i soli a non riuscire a cancellare le memorie, chi ha vissuto intensamente l’ultimo decennio della storia dei Bulls non può dimenticare. Fra questi, due giovani chicagoani, che, tramite un membro della security, sono riusciti a far recapitare nello spogliatoio degli ospiti due lettere che gli ex Bulls troveranno nei rispettivi armadietti e – almeno questo è il piano – leggeranno prima di scendere in campo.
Caro Jo,
Un vecchio filosofo un tempo disse: “È cercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile”. Qualche anno fa, mentre studiavo queste parole intrappolato sui banchi di scuola, tu e i Chicago Bulls stavate battagliando con i Brooklyn Nets per l’accesso al secondo turno di playoffs. Sì, sto parlando del primo anno senza tuo fratello Derrick. Quello della campagna dell’Adidas, del #TheReturn che non c’è mai stato. L’anno del “We have more than enough to win with” sussurrato a denti stretti prima di ogni dannata partita da Tom Thibodeau. Che coppia formavate, voi due. L’essenza di una città come Chicago trasportata sul parquet 48 minuti a sera. Non ce ne fregava un cazzo di Sports Center, delle copertine. I tifosi volevano semplicemente credere in qualcosa e voi eravate esattamente quello che serviva per tenere viva la Fede in una città che aveva appena perso il suo Messia. Non importava quante batoste potessi prendere nella vita di tutti i giorni. Quasi ogni sera sapevo che, ad una certa ora della notte, mi sarei trovato catapultato in una nuova realtà dove tutto era possibile.
Probabilmente sei stato uno di quei giocatori la cui importanza non si riusciva a capire senza essere tifosi dei Chicago Bulls. La tua smisurata passione, al di là dei tuoi numeri, è sempre stata la scintilla che faceva scattare l’alchimia della squadra, in campo e fuori. Ogni urlo dopo un rimbalzo che per un istante diventava la tua unica ragione di vita, ogni assist che ti inventavi dal gomito. Ogni coast-to-coast con il tuo modo di correre francamente improponibile, e vogliamo parlare del Tornado? Eppure. Eppure tu quella serie di playoffs contro Brooklyn l’hai vinta, nonostante ci fossero partite in cui Thibodeau a malapena riusciva a mandarne cinque in campo, nonostante la fascite plantare che ti attanagliava, nonostante i Nets fossero nettamente favoriti. Nonostante tutto, hai vinto. Abbiamo vinto, espugnando il Barclays Center in Gara-7 grazie alla tua toughness e alle big balls di Beli e Nate. L’anno dopo sei finito quarto nelle votazioni per l’MVP in mezzo a quelli con le mani buone e la dinamite nelle gambe, hai vinto il premio di Difensore dell’Anno e hai condotto Chicago al terzo posto a East malgrado il secondo infortunio a Derrick e l’addio di Lu, un altro che consideri un fratello. Dicevi di giocare per il ragazzo dei giornali fuori dal palazzetto e per chi poteva permettersi solo un posto nelle ultime file, una volta l’anno, con qualche sacrificio. Quando andavi in lunetta lo United Center cantava ”MVP! MVP! MVP!”, un sogno per chiunque ma non per te: “Non mi piace, di MVP a Chicago ce n’è uno solo, ed è Derrick. Noi stiamo lottando per lui”.
Piccole grandi cose, come quando nella serie di playoffs contro i Celtics nel 2009 hai rubato il pallone decisivo in Gara-6 al terzo overtime e sei andato schiacciare, dopo aver percorso tutto il campo con la tua corsa sgraziata e la coda di cavallo al vento, con sesto fallo di Paul Pierce annesso. In quel momento anche La Verità si è dovuta inchinare alla debordante tenacia di un giocatore che ha iniziato a frequentare i parquet facendo il ragazzo degli asciugamani. In quel momento Chicago è diventata la tua casa, e continuerà ad esserlo per sempre.
Ci hai fatto riscoprire Il bello di essere brutti. E sfavoriti. Tanto cazzo ce ne frega a noi delle copertine?Grazie di tutto Jo.
Se per Noah Chicago è diventata una seconda casa, per Rose è “The only place where he knows how it is to play“, citando Mamma Brenda. L’unico posto dove sa cosa si prova giocando a basket. L’unico posto dove credeva che avrebbe mai giocato. Chicago è tutto. Un rapporto così profondo e viscerale al punto da non essere pienamente descrivibile.
Bentornato Derrick,
Anche se l’impressione è che tu non te ne sia mai andato; troppo profondo il legame con questa città perché una divisa di un nuovo colore lo cancelli. Dalle acque del lago ai palazzi che hai impressi sulla pelle, non c’è un solo angolo di Chicago che non racchiuda una parte di te. Mentre tu porti dentro, sotto quella canotta di un altro colore, l’essenza della tua città, che affronta i venti gelidi dal nord con gli edifici più imponenti a sfidare il lago e i quartieri difficili dove si combattono temperature sotto zero. Ogni giorno Chicago resiste come tu resisti, ostinato al limite della stupidità, fiero di fronte a un destino che ti pugnala alle spalle. Questo, più della sovrannaturale capacità di piegare le leggi della fisica al volere della tua pallacanestro, è ciò che ammiro di te.
Era il 2010 e tutta la lega si affannava inseguendo questo o quel giocatore nella free agency più attesa di sempre, ma non tu. Non avevi bisogno di LeBron “perché nel suo ruolo c’è già Deng”, continuavi a ripetere. A Chicago non arrivarono grandi nomi; abituati a vedersi srotolare tappeti rossi davanti ai piedi e costretti a bussare alla tua porta col cappello in mano, scelsero altri lidi. Non c’era problema, ci avresti pensato tu a condurre la tua città e lo annunciasti al media day ponendo ai giornalisti presenti la celebre domanda: “Why can’t I be the MVP?”. Ricordo ancora le risatine in sala stampa, ma io scelsi di crederti e da quel giorno non ho più smesso, nemmeno quando hai sentenziato che avresti fatto appendere allo United Center il settimo banner. Come siano andate le cose da quel momento lo sappiamo tutti, ripeterlo sarebbe gettare sale su ferite che non si chiuderanno mai del tutto. Non sei mai stato più lontano dall’obiettivo di quanto lo sarai stasera, eppure sotto la cenere arde ancora l’irrazionale certezza che tornerai per tener fede alla tua missione.
“Number 25 is all for Chicago” hai sussurrato il giorno che sei stato strappato alla tua gente, “Chicago is all for number 25” ricambia la tua città.
Arrivederci Derrick.
Lettere da Chicago, scritte con il cuore in mano per due ragazzi che l’hanno accompagnata dai picchi di gioia ai momenti più bui a modo loro, contro tutto e tutti, a volte anche contro ogni forma di logica e buonsenso, ma sempre guidati dal loro autentico e sconfinato Chicago Heart.