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T-Mac like Mike

Claudio Pellecchia by Claudio Pellecchia
16 Dicembre, 2019
Reading Time: 6 mins read
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– Copertina illustrata da Marco Magri –

Erano i primi anni 2000. I tempi delle medie (non necessariamente quelli delle mele, almeno nel mio caso) e dei sabato pomeriggio passati davanti alla Tv e non sui polverosi campi di calcio di una qualunque periferia italiana. Non faceva per me e poco mi importava che i miei compagni mi prendessero in giro. C’era NBA Action, c’era la courtside countdown di Federico Buffa, c’era la caccia all’erede di Michael Jordan, ristretta, rigorosamente, a tre nomi: Kobe Bryant, Vince Carter e Tracy McGrady.

Con il tempo il mio sangue gialloviola ha avuto la meglio e sono diventato un ‘mambista’. Ma, all’epoca, preferivo la mcgradyness alla kobiosity e alla vinsanity. Ed ero fermamente convinto che l’unico in grado anche solo di avvicinarsi a Michael Jordan fosse quello con il #1 degli Orlando Magic.

Una schiena da ottantenne montata su un fisico da uomo vitruviano e l’indolenza tipica di chi è troppo superiore al resto del mondo ci hanno impedito di scoprire che tipo di giocatore sarebbe stato. Ma non importa. Ci sono stati momenti in cui per davvero McGrady è stato Jordan. Per una partita, per 35 secondi, per una sola singola azione. Facendomi diventare testimone di qualcosa che non si sarebbe mai più rivisto.

LA LEGGENDA DI MOUNT ZION

Slam Dunk Contest 2000. Quando si cominciò a contare dall’anno I dopo Vince Carter. Il quale, dopo la schiacciata con tanto di braccio infilato nel canestro, ha appena ribadito all’intera Baia di Oakland che quel giorno si stava davvero facendo la storia. Con lui, nell’ingratissimo ruolo degli “altri” ci sono Steve Francis e il cuginetto, che, per avere qualche speranza, all’ultimo turno avrebbe bisogno non solo dei 47 punti necessari per il conforto della matematica ma di qualcosa di speciale, di mai visto. Peccato che il concetto di “mai visto” sia stato riscritto pochi minuti prima dal suo compagno di squadra con il numero 15 (si, perché c’è stato un tempo in cui Tracy McGrady e Vince Carter hanno giocato nella stessa squadra).

E allora T-Mac si vede costretto ad attingere dal suo passato, a qualcosa che davvero nessuno (se non pochi, fortunati, testimoni oculari) ha mai visto. Mount Zion Christian Academy, in un periodo indefinito della stagione 1996/1997. McGrady è un giocatore troppo forte, anche per gli standard altini delle high school americane. Ala piccola, guardia, playmaker, non fa differenza: un uomo tra i bambini, annoiato dal suo spaventoso talento. E, quindi, costretto a inventarsi sempre qualcosa di nuovo per tenere desta l’attenzione di tutti, compresa la sua.

La leggenda narra che un giorno (in partita? In allenamento? Non è dato sapere, ma in fondo che importa?) attenta alla fisica, tirando giù una schiacciata irreale: prende la linea di fondo e si beve l’uomo in aiuto per poi andare in 360 a chiudere dalla parte opposta del ferro dopo essersi tenuto su con un doppio colpo di reni in area. Youtube non esisteva ancora, quindi bisognava affidarsi alle voci e al passaparola. Non tutto era certo. Quindi nemmeno che il diciassettenne T-Mac avesse effettivamente fatto una cosa del genere, sebbene fosse potenzialmente nelle sue possibilità.

Come avrebbe appunto dimostrato quel giorno ad Oakland. McGrady prova a rifarla (due volte) quella schiacciata (min. 07:35), aggiungendoci il corollario del pallone che batte per terra per poi essere ripreso a mezz’aria. Sbaglierà entrambe le volte, lasciando a Carter il posto nella storia e lasciandoci macerare nel più classico dei “cosa sarebbe successo se avesse chiuso una cosa così?”.

Che poi il What If di prammatica sia la colonna sonora dell’intera carriera è il classico dettaglio che aggiunge lustro a leggenda.

OLTRE IL LIMITE, OLTRE IL DOLORE

Christmas Day 2002. La schiena ha già cominciato a mettersi di traverso (e non solo) sui legittimi propositi di grandezza del nostro. Tanto più che, in quella prima parte di stagione, i Game Time Decision si sono susseguiti in maniera preoccupante. Non ci sarebbe motivo, quindi, per giocare quella sera contro i Detroit Pistons, con il dolore che si è fatto a tratti insopportabile. Finché qualcuno non gli sussurra all’orecchio quattro parole: “Do it for Iran”.

Iran, che all’anagrafe faceva (e fa) Brown di cognome, era un tifoso di McGrady. Uno dei tanti in giro per il mondo. Uno dei pochi, anzi pochissimi, ad essere scampato alla furia omicida di John Allen Muhammad. Quello che, nell’America post 11 settembre, non aveva trovato di meglio da fare che seminare il terrore con un fucile da cecchino, uccidendo 10 ignari passanti e ferendone tre. E l’unico che, appena uscito dall’ospedale, chiede di poter andare a vedere T-Mac a Natale contro i Pistons è, appunto, Iran.

Stavolta non può essere Game Time Decision. Stavolta si gioca. Per davvero: 44 minuti, 46 punti, 8 rimbalzi e asciugamano regalata a mò di sacra sindone al primo tifoso di una sera in cui la mente superò il fisico e i suoi limiti. Come qualcuno, qualche anno prima, a Salt Lake City.

P.s. John Allen Muhammad fu condannato a morte tramite iniezione letale nel settembre del 2003: la condanna fu eseguita nel novembre del 2009;

P.p.s. Quei 46 punti, sommati ai 43 del 2000 contro i Pacers e ai 41 (con 11 assist e 8 rimbalzi) di quello dopo, porta la media punti di T-Mac nel giorno di Natale a 43.3: la più alta di sempre.

“I SAW A MAN FLYING”   

All Star Game 2002 di Philadelphia, il penultimo della carriera di Michael Jordan. Il quale, a metà del secondo quarto, è seduto in panchina ad adempiere stancamente agli oneri tipici dello sportivo più ricercato dai media, con l’ennesima (e inutile, dal suo punto di vista) intervista da bordo campo. E’ probabile che M.J. non stia guardando quel che succede sul parquet perché, altrimenti, si renderebbe subito conto cosa sia stata quell’esplosione seguita dal boato del pubblico. Se lo farà raccontare dopo, negli spogliatoi, non prima di aver visionato un paio di replay.

https://www.youtube.com/watch?v=QjPRpZYc3wA

Semplicemente è successo che Tracy McGrady ha inventato la ‘Remix’, la schiacciata tra le stelle nella partita delle stelle: conduzione trotterellante del contropiede dopo il rimbalzo di Jermaine O’Neal, auto assist al tabellone poco dopo aver passato la linea del tiro da tre punti (con palla mandata in mezzo a Nowitzki e Nash) e 9.5 scala Richter tirata giù con una forza come mai prima e mai dopo. Ancora oggi non si sa che fine abbia fatto quel giornalista che impedì a Michael di vedere Michelangelo che completa la Cappella Sistina.

“DO YOU BELIEVE IN MIRACLES?”

Il tempo è l’unità di misura più relativa in assoluto. Non conta la sua dimensione reale quanto, piuttosto, la percezione che ciascuno di noi ha di esso. Il 9 dicembre del 2004 Tracy McGrady, sul 76-68 per gli Spurs al Toyota Center, sul cronometro non vedeva i 35 secondi che mancavano alla sirena finale. Vedeva qualcosa che solo lui poteva vedere, qualcosa che avrebbe piegato al suo volere la dimensione spazio-temporale: 13 punti in 35 secondi (tre triple e un gioco da 4 contro Duncan. Ripeto UN GIOCO DA 4 CONTRO TIM DUNCAN!) a una squadra di Popovich, con Bruce Bowen che è lì solo per non farti tirare. E non può comunque farci nulla. Perché tu sei Tracy MacGrady, l’uomo che oltre agli Spurs ha battuto anche il tempo. E che non si parli di miracolo. Era solo un giorno come un altro nel meraviglioso mondo di T-Mac. “Abitanti uno: lui” (cit.).

P.s. 30 secondi, ultimo tiro, partita che sembrava persa e poi vinta: sta storia io l’ho già sentita, non so voi…

IL BASEBALL E IL MITO DELL’ETERNO RITORNO

Tracy McGrady ha smesso di essere un giocatore vero (o, almeno, quel tipo di giocatore) a metà del 2008/2009. Da lì in avanti è stato uno stanco trascinarsi sul non affollatissimo viale del tramonto. Eppure lasciandoci cullare sull’illusione che un giorno, come “presi per incantamento” (noi e lui) tutto sarebbe tornato come prima e tutto ciò che non era stato possibile prima, sarebbe stato possibile poi. Knicks, Pistons, Hawks, la Cina, gli Spurs: una catarsi fallita trasformata in un mito dell’eterno ritorno che ha un solo precedente nella storia del basket contemporaneo. Inutile che vi ricordi quale, tanto più che c’è anche l’esperienza nelle Minors della Mlb (con i carneadeatici Sugar Land Skeeters) a fungere da trait d’union. E anche adesso che si è ritirato per davvero sono sicuro che, da qualche parte del mondo, c’è ancora qualcuno disposto ad aspettare che Tracy Lamar McGrady ritorni ancora una volta. Per quanto, non importa.

Tags: jordanMcGrady
Claudio Pellecchia

Claudio Pellecchia

Giornalista di e per sport, sogna di risvegliarsi un giorno in un mondo dove Shaq e Kobe non hanno mai litigato e Tracy McGrady ha una schiena normale. Autore di libri a tempo (molto) perso, finge di capire qualcosa di basket qui, su Rivista Undici ed Esquire.

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