Squilla il telefono. Dall’altra parte della cornetta c’è la proprietaria dei Denver Nuggets, Ann Walt Kroenke, che ci invita nel suo ufficio per un appuntamento. Primo volo per il Colorado e giungo al numero 1000, Chopper Circle nel head office, luogo dell’appuntamento. Durante il colloquio la signora di Wal-Mart Spiega che nel 2016 è corso il quarantesimo anniversario della prima iscrizione della franchigia in NBA e che in tale occasione aveva capito che era ora di andare in All-in. Ci propone di diventare il nuovo General Manager della sua franchigia con un contratto sprovvisto di retribuzione a meno che entro 6 anni, Denver possa finalmente raggiungere il Larry O’Brien. E’ un all or nothing, vincere il titolo e ricevere un premio multi-milionario oppure non essere rimborsato nemmeno dell’abbonamento della metropolitana.
Carta bianca su qualunque cosa per sei anni, dalla gestione dei giocatori alla scelta del massaggiatore, un contratto decennale appena firmato con la lega per la permanenza della franchigia che protegge la proprietà da eventuali mosse “azzardate”, in poche ci si pone davanti il rischio più grande della storia della NBA. Affare fatto.
Chi – Il roster
-Lorenzo Bonacina-
Il filosofo che personalmente occupa buona parte delle mie decisioni deciderebbe di utilizzare il logos cercando di fondare un sistema su quello di chi ha vinto in precedenza. In soldoni, analizzare i roster di tutte le squadre che hanno vinto, o sono almeno arrivate in finale, nella storia NBA. Ma visto che le dinamiche NBA sono molto cambiate dal 1984 in poi, anno di istituzione del salary cap, è necessario prendere atto del fatto che sia meglio concentrare primariamente gli studi sulle squadre che sono arrivate in finale nel dopo Jordan, fissando così, come farebbero gli storici con la rivoluzione francese, un paletto nell’epoca della NBA contemporanea.
La conclusione è che non c’è conclusione, che non esiste una ricetta vincente, altrimenti tutti starebbero utilizzando la triangle post-offense, ma il contesto e l’adattabilità dei giocatori cambia di volta in volta modificando gli esiti.
C’è però una linea comune tra tutte le squadre analizzate: il draft e le stelle. Ogni squadra che sia arrivata in finale dal 1998 ad oggi aveva almeno uno dei tre “giocatori” principali proveniente dal draft, alcuni poi avevano aggiunto un campione dalla free agency, altri erano andati ad imbastire degli scambi ma tutto questo era stato reso possibile dalla presenza a Roster di una stella. Per esempio, da 20 anni a questa parte a Ovest in finale ci sono arrivate: San Antonio, Lakers, Dallas, OKC e Golden State e malgrado siano tutte squadre che si sono sempre mosse intelligentemente sul mercato non sarebbero arrivate li senza i vari Duncan, Nowitzki, Bryant, Durant o Steph Curry. Molte di queste squadre si sono formate per trade o sulla base della free Agency, infatti (questa volta considerando la eastern conference) gli Heat del 2006 oppure i big three nel 2011, Boston del 2008 ma mi risulta difficile pensare che tutto ciò sarebbe avvenuto indifferentemente dalla presenza a roster di Wade o Pierce, entrambi chiamati al draft.
Ovviamente l’eccezione che conferma la regola c’è ed è proprio quella dei Detroit Pistons, che non avevano tra le loro stelle nessun giocatore selezionato personalmente ma con Tayshaun Prince, Chauncey Billups e i due big Wallace, rimane difficile pensare ad un esito diverso dalle finali.
La coppia Emmanuel Mudiay e Jamal Murray è una delle più accattivanti della lega. Atletismo e buone percentuali dalla media che non necessariamente sono i requisiti fondamentali di questi tempi, ma Mudiay è un giocatore passato troppo inosservato, non tanto per capacità tecniche, quanto per le decisioni che prende in campo, un accumulatore di statistiche in una comunque buona stagione da Rookie, con i mock draft che lo davano favorito per la first pick all’alba della scorsa stagione, ha pagato un po’ la scelta (ma meglio parlare di necessità in questo caso) di andare a giocare in Cina, scivolando fino alla numero 7.
Quasi 13 punti di media accompagnati da 5,5 assist e 3,5 rimbalzi a partita non sono decisamente pochi per un giocatore che doveva totalmente prendere confidenza con il basket americano. Jamal Murray, prodotto di Kentucky, ha viaggiato a 20 punti di media, tirando con il 45% dal campo, e strappando quasi 6 rimbalzi a partita. Il problema di questa coppia potrebbe essere la bassa percentuale dall’arco che potrebbe invitare le difese avversarie a convergere verso il centro.
Passando alle ali c’è una scelta molto importante da compiere e riguarda Danilo Gallinari e Kenneth Faried, i due sono giocatori ancora giovani (28 Gallinari, 26 Faried) ma ormai prossimi al giro di boa della carriera NBA. L’Italiano è reduce da due infortuni seri mentre la dinamica ala grande vede ridursi esponenzialmente la propria efficacia appena muove qualche passo allontanandosi dal ferro. Il progetto prevede il salto di qualità decisivo tra circa 4 stagioni e i due potrebbero non farne parte. Senza dubbio Gallinari ha più mercato e attualmente è anche più apprezzato dai GM della lega. Sapendo di un forte interesse dei Celtics, basterebbe proporre a Danny Ainge una trade che includa Danilo in cambio della scelta 2017 dei Brooklyn Nets, che a mio parere sarà con ogni probabilità una Top 5.
Gallinari + Scelta Denver Nuggets primo giro 2019 in cambio del contratto di Amir Johnson, quello di Jonas Jerebko e la pick 2017 dei Nets.
Kenneth Faried è’ un giocatore che potrebbe interessare molto le squadre che aspettano il momento giusto per il salto di qualità, ha un contratto gestibilissimo (sopratutto con l’innalzamento del cap) di 12 milioni annui ma potrebbe fruttare meno del reale valore a causa del rendimento non eccelso dell’ultima stagione.
Lo si potrebbe offrire con Jusuf Nurkic, giocatore con un talento ancora troppo nascosto, agli Indiana Pacers in cambio di Myles Turner, il rookie costruito dalle sapienti mani di coach Vogel, esploso nell’ultimo frangente di stagione. E’ un centro molto mobile, che malgrado l’altezza “media” per gli standard di lega, riesce ad essere un ottimo rim protector. Inoltre possiede un buon tiro dalla media distanza e può essere utile per aprire il campo.
Per pareggiare gli ingaggi viene accorpato anche il contratto di Rodney Stuckey che comunque resterà a margine del progetto.
Faried + Nurkic + pick 2017 Nets in cambio di Rodney Stuckey e Myles Turner

Strategie
Ai nastri di partenza della stagione 2016/2017 il quintetto titolare sarebbe:
Mudiay, Murray, Burton, Jokic (Amir Johnson), Turner.
Non troppe vittorie, un po’ di esperienza e delle basi su cui ricostruire. Non stiamo parlando di un progetto alla Hinkie che brucerebbe tutto ciò che potenzialmente diventerebbe solo un role player in attesa del “nuovo LeBron James” ma è essenzialmente toglierebbe i Nuggets dalla paludosa zona della metà classifica, perdendo molto partite ma sviluppando dei talenti con vero potenziale. Sotto un certo punto di vista sarebbe eccezionale imitare il modello Danny Ainge, che a Boston ha scambiato dei buoni giocatori in cambio di scelte a squadre che sono più interessate al balzo di qualità piuttosto che ad una rifondazione, ed in 3 o 4 anni provare a riportarsi nelle zone alte della classifica.
Passare dal draft è indispensabile. Anche se alla numero 12, 30 o 58, si potrebbe nascondere colui che cambia le sorti della franchigia , a livello di probabilità è ovviamente meglio pescare in alto. Forse il movimento #TrustTheProcess ha il fastidioso difetto di mostrare al pubblico la volontà di perdere a tutti i costi ma è un metodo che nelle sue sconfitte nasconda più ambizione di vittoria piuttosto che l’ennesima stagione tra le 30 e 40 W.
Quindi a tutti i tifosi che potrebbero apparire scoraggiati e disorientati da queste mosse chiederemo semplicemente di pazientare e per quanto possa essere difficile, di continuare a popolare il palazzetto come se fossero tutte partite di playoffs, La ricostruzione passa anche dalla città.
Vincere
-Cosimo Sarti-
Come se ogni anno si divertissero solo i tifosi della franchigia che vince. Come se ciò che separa una stagione vincente da una fallimentare fosse una tripla dello Zio a poco meno di un minuto dalla fine di un campionato durato otto mesi. Come se uscire al primo turno di playoffs fosse una perdita di tempo. E’ a questo che stiamo arrivando grazie, o meglio, per colpa di GM come Sam Hinkie, più adatto ad una cattedra di un corso di analisi che ad un front office NBA. Non esiste la scorciatoia per la vittoria. Esiste una strada a rigor di logica meno impervia per raggiungere il Larry O’Brian, ma che presenta una serie di controindicazioni morali, economiche e sportive tali da renderla (quella sì, al contrario di una first round exit) una perdita di tempo.
Ci ritorneremo più avanti, prima voglio svelare l’ingrediente segreto per portare a casa un anello. Una sana ed enorme dose di culo, accompagnata dalla competenza che più o meno ogni GM NBA dovrebbe avere.
La fortuna di vincere un lancio di monetina che porta con sè Magic Johnson, la fortuna che a Portland serva un lungo e decida di lasciare Michael Jordan, la fortuna che Minnesota scelga Johnny Flynn piuttosto che Steph Curry. Ottenere volontariamente gli odds più favorevoli alla Draft Lottery non garantisce in alcun modo di trovarsi in squadra un giocatore in grado di svoltare la franchigia e contribuire alla vittoria di un anello. Dal 1990, anno in cui è stato introdotto l’attuale sistema per l’assegnazione della prima scelta, è successo una volta sola che la squadra con il maggior numero di sconfitte, vinta la lottery, scegliesse un giocatore poi schierato in una Finale NBA vinta. Si tratta di Cleveland, che dopo ben tredici anni, una Decision e un Homecoming, magliette bruciate, altre tre prime scelte assolute, ha raccolto i frutti del Draft 2003 in cui aveva scelto tale LeBron Raymone James. Stabilito che storicamente è inutile un tanking esasperato, non sono da tralasciare altri aspetti negativi della questione. Innanzitutto, l’NBA è una lega che offre intrattenimento dietro lauto compenso da parte degli spettatori ed ha quindi bisogno di mantenere altissimo il livello del proprio prodotto; che ci siano squadre di diverso livello tecnico ogni anno è fisiologico, che una squadra venga costruita per non essere in alcun modo competitiva è un offesa al pubblico pagante. Se il palazzetto smette di essere soldout e il merchandising rallenta, il telefono squillerà presto e dall’altra parte vi si troverà un Adam Silver molto poco conciliante, che non avrebbe problemi addirittura a ricollocare la franchigia (chiaramente questo non vale per i big market teams) in una città dove l’interesse verso la pallacanestro non sia già stato annientato da anni di gioco a bassi livelli. Sorvolando sulle implicazioni economiche, si tratta anche di un’offesa al Gioco ed ai giocatori; provate ad immaginare che motivazioni e propensione al gioco di squadra può avere un ragazzo che sostanzialmente sa di essere stato messo sotto contratto perché non abbastanza bravo per contribuire a vincere delle partite. Nella migliore delle ipotesi cercherà di mettersi in luce come singolo per ottenere un posto altrove, ma non si farà certo in quattro per i compagni nè aiuterà a costruire una mentalità vincente. Winning culture e chemistry possono risultare concetti difficili da carpire per alcuni, non essendo quantificabili in numeri, ma sono due fattori estremamente importanti sia nello sviluppo dei giovani che per quanto riguarda la performance della squadra in partita ed allenamento. Citando uno dei più grandi coach di ogni epoca a prescindere dalla disciplina, il pluricampione NFL Vince Lombardi:
“Winning is a habit. Unfortunately, so is losing”.
Vincere è un’abitudine. Sfortunatamente, lo è anche perdere. Bisogna vincere, vincere il più possibile, essere competitivi, creare una cultura basata sul lavoro che porta al successo e,prima o poi, la fortuna arriverà per tutti. Nel frattempo, ci si potrà sempre consolare guardando del buon basket!
Ci rendiamo conto che è l’approccio alla base ad essere differente, il mio più competitivo, spietato, ogni mezzo è giustificato dal fine e non esistono vie di mezzo. L’essere drastici spesso non è solo utile ma indispensabile.
Il suo invece è un approccio più romantico, da una persona troppo rispettosa del gioco, del movimento basket per comprendere di apportare modifiche ad una squadra per far si che vinca meno partite dell’anno precedente.
E’ un contrasto vecchio come il mondo, e presente in tutti i campi: l’utilitarismo che affronta l’etica e le virtù, l’utile che si scontra con il bene, il tentativo di dominarlo con l’ammirazione per il fato.
Io e Cosimo ci alziamo da tavola senza aver trovato un punto d’accordo, trovare una mediazione tra di noi penso sia tanto difficile quanto quella tra un ascoltatore di Punk rock ed uno di musica classica oppure tra un amante del mare e uno della montagna. Ma forse è anche questa mancata uniformità di pensiero a rendere bello il mondo, lo sport e il basket, il fatto che tu possa pensarla in un modo piuttosto che nell’altro ma in fin dei conti è sempre tutto dettato da tiri che entrano o che non lo fanno, che sia questione di programmazione, di mentalità, di destino oppure di casualità sono le supposizioni che possiamo fare noi e sono spesso condizionate dallo sguardo con cui le leggiamo.