Arbitraggi indecenti, polemiche a non finire. I Playoff 2022 hanno come titolo sinora le presunte risse di campo e quella autentiche mediatiche e sui social. Innescate da fischi assurdi, sempre imprevedibili, talvolta addirittura stravaganti, che farebbero ridere se non facessero piangere, con in ballo così tanti interessi. Espulsioni, squalifiche, partite rovinate in maniera persino fantasiosa, talvolta. Di tutto di più, o meglio di meno, ahinoi.
Partiamo dal concetto che arbitrare atleti sempre più veloci e rapidi non è facile, e che gli errori arbitrali ci sono sempre stati e ci saranno sempre. E che i social network amplificano tutto, come mai in passato. Ma il livello degli arbitraggi NBA dei playoff 2022 sinora è stato inaccettabile. Raramente a livello professionistico, in qualsiasi disciplina sportiva, a qualsiasi latitudine, si è visto di peggio. Nel secondo turno Gara 1 Memphis-Golden State e Gara 4 Dallas-Phoenix sono state vergognose a livello di fischi. Falsate e imbarazzanti per chiunque abbia gli occhi per vedere e non sia influenzato da policy aziendali, interessi specifici o di tifo. Non si può andare avanti così senza dire o fare nulla. E soprattutto non si può pensare di abituarsi a questa realtà, che questo sia il futuro del gioco. Proviamo a capire cosa sta succedendo, perché sta succedendo e cosa di può cambiare per il bene del gioco, anzitutto.
Causa n.1: eccessi della tecnocrazia. Troppi replay
Gli arbitri hanno smesso di fare gli arbitri. Con la coperta di Linus dei replay hanno perso l’abitudine a valutare gli episodi con accuratezza in tempo reale, la loro competenza specifica principale. Tanto c’era sempre il paracadute replay per evitare topiche. Ora che per non far durare le partite all’infinito – come neppure nel baseball-, sono stati per me giustamente tolti i replay per i casi dubbi degli ultimi minuti, oltre i challenge che possono comunque sempre essere richiesti dalle panchine, è saltato il banco. Gli svarioni si susseguono.
Quando non sei più abituato a ragionare, ma solo a seguire pedissequamente procedure più o meno cervellotiche, non è facile tornare indietro. Gli arbitri NBA sono diventati soldati: eseguono, non pensano. La tecnologia deve essere al servizio del gioco. Uno strumento di supporto per tutti i protagonisti. Ma quando si sostituisce al cervello beh, diventa un passo indietro, non avanti. Anche perché i criteri con la quale è adottata e calibrata per l’uso sono comunque umani. I parametri di utilizzo passano già da una selezione discrezionale. Quindi non garantiscono comunque certezze, la tecnologia in eccesso semmai aumenta ulteriormente la confusione.
Anche perché la tecnologia sull’entità dei contatti non solo a volte non aiuta, ma diventa un boomerang: impossibili da valutare in modo efficace con un replay. Vale persino per il pallone sfiorato, ma che non cambia direzione rispetto ad un precedente tocco chiaro: si vedono possessi letteralmente assegnati a caso, contro ogni logica. Si dà alle immagini un potere assoluto: quello di cambiare la realtà per proporre una realtà virtuale. Ancora più pericolosa rispetto all’errore umano perché più facilmente manipolabile.
Causa n.2: mancanza di buon senso arbitrale
Il link al punto precedente è ovvio. La società americana non conosce il significato del concetto di buonsenso. Protocolli ogni giorno più stringenti nella vita reale che riducono libertà e caratterizzazione dei cittadini. Quello che succede nella pallacanestro è solo un segno dei tempi (cupi!). L’omologazione regna sovrana perché rende più facile far passare a chi sta in alto qualunque messaggio, legittimandolo.
Se l’arbitro non è più chiamato a pensare, ma solo ad applicare delle regole, uno vale l’altro. Si perde il valore aggiunto del know-how, della conoscenza del gioco, dello spirito del gioco, della capacità di rapportarsi con i giocatori, che non sono tutti uguali. Di capire i momenti della partita, che non sono tutti uguali. Si perde la bussola…
Causa n.3: perse le certezze. Cos’è un fallo duro?
Gli errori ci sono sempre stati. Umano e forse anche più bello così. Ma fino a poco tempo fa si sapeva “di che morte morire”. Il metro di giudizio era chiaro. Sapevi cos’era un contatto, un fallo, un fallo duro, un fallo da espulsione e uno da squalifica. Adesso siamo agli interrogativi del Monopoli. E le Probabilità che gli arbitri si inventino qualcosa di assurdo, ma di perfettamente conforme a un qualche cavillo di procedura, sono sempre più elevate.
I giocatori si arrabbiano perché non hanno più certezze. I giornalisti si smarriscono perché non hanno più certezze, i tifosi perdono la testa perché non hanno più certezze. Gli arbitri sono i primi a non avere più certezze. Regna sovrano il disordine. All’interno della partita episodi simili sono valutati in maniera opposta. Di partita in partita si vede tutto e il suo contrario. Così il gioco perde credibilità.
Causa n.4: metro di giudizio per status (e razza?)
La regola non scritta NBA è sempre stata: due pesi e due misure. Visto che si parla di “codici” in questi giorni, più o meno infranti da falli presunti cattivi per fare male, ecco che questo codice negli anni era sempre stato rispettato, nemmeno fosse stato stabilito dalla Tavola Rotonda di Re Artù. Nessuno ha mai fiatato in proposito. Ci si adeguava. Ai campionissimi veniva garantito un trattamento di favore, agli altri le briciole. Questione di status in una lega storicamente di stelle.
Vale ancora. Ma l’ottusità dell’applicazione rovescia il principio. E dunque per garantire i fenomeni, perché sono quelli che vendono le magliette e tengono gli appassionati attaccati alla TV o di fronte al League Pass, è stato deciso in maniera persino esagerata di ridurre al minimo i contatti, in uno sport di contatto. Per ridurre gli infortuni, che con 82 partite di stagione regolare si accumulano sempre più. Che poi le stelle fanno il broncio, interessate più al brand personale che ai risultati di squadra. E si rifiutano di rientrare post operazione, nonostante l’ok medico. Perché comandano loro, nella lega di Silver come Commissioner. In una lega che segue anche ragionamenti politici e sociali emblema dello star power di giocatori testimoni di riscatto sociale. Hanno ragione a prescindere, anche quando hanno torto. Perché il fine, il messaggio che si vuole lanciare, giustifica i mezzi. La narrativa oltre la cronaca, secondo chi comanda.
Però se parti da questo concetto, poi nella pratica non ti contraddici e fischi anche i sospiri a Chris Paul, una stella, come successo in Gara 4. Perché sbagli l’applicazione: non solo non tuteli la sua salute e la sua carriera, come da ratio delle disposizioni impartite dalla lega agli arbitri, ma paradossalmente penalizzi la star. E con lui lo spettacolo. E il gioco. E la veridicità del risultato. Perché un conto è far decidere la partita alla sfida Luka contro CP3, un altro se lo sloveno si ritrova davanti Payne. Che in quel caso si legge dolore, il nostro, a vedere questo scempio.
C’è di peggio. Se a fare o subire falli feroci o provocazioni da strada sono Jokic e Doncic, fenomeni planetari, ma giocatori europei bianchi, c’è una narrativa pronta da applicare. Si preme un pulsante, scatta il pilota automatico. Se gli stessi identici episodi hanno come protagoniste stelle afroamericane la versione preconfezionata è profondamente diversa. Lo stesso vale per le comparse delle due categorie. I Grayson Allen rispetto ai gemelli Morris, per capirci. In America questo modus operandi ha fatto perdere spettatori autoctoni alla NBA. In Europa si fa più fatica a percepirlo, o perlomeno a contestualizzarlo in quella società, più che in questo sport.
Causa n.5: si vende un prodotto di marketing
Ormai la pallacanestro NBA, a torto o ragione, è sport solo a livello nominale. E’ un prodotto di intrattenimento, in realtà. Una macchina da soldi, oltre che una cassa di risonanza per tematiche di costume. Ora: se si vende un prodotto la prima regola di marketing è cercare di renderlo appetibile. E quando una squadra “scappa” in troppe partite si assiste a un’inversione a U che nemmeno nelle strade di campagna senza telecamere nei paraggi. Improvvisamente si vedono fischi che cercano di non far mettere mano al telecomando al telespettatore. Comprensibile, ma fastidioso. Anche perché a questi livelli se rimetti in partita dei campioni poi non sai mai le dinamiche come possano cambiare. Puoi falsare il risultato.
Metto la mano sul fuoco sul fatto che le partite siano regolari. Nel senso, che è vero che i grandi mercati ricevono un occhio di riguardo nelle stanze di potere della lega, cosi come alcuni grandi personaggi, per storia e caratteristiche, rispetto ad altri, ma viene venduto ad un pubblico assolutamente globale, rispetto agli altri sport statunitensi, un prodotto che deve essere considerato legittimo. A prova di bomba. Altrimenti crolla il castello di carte.
Per quanto le teorie complottiste di quella o dell’altra tifoseria siano inevitabili, sbagliano indirizzo. Invece, semmai, ovviamente mai confermabile ufficialmente, c’è appunto l’indicazione generica di non svilire il prodotto facendo finire le partitissime tanto a poco. A meno che non sia in funzione del record del campione di turno da promuovere. Altrimenti state tranquilli: se per fare il primato X o Y avrà bisogno di TOT numero di canestri/punti, gli arbitri non si metteranno di traverso, anzi…Dà fastidio, perché lo sport – persino in una lega che spesso parla e ancora più spesso straparla, ipocrita – di etica e valori, avrebbe ben altri valori. Che non dovrebbero essere riassunti da una cascata di biglietti verdi.
Come se ne esce
Non se ne esce. Assumere arbitri internazionali, che portino in dote una mentalità diversa, che arricchiscano il patrimonio tecnico e umano della truppa dei fischietti USA aiuterebbe, ma non succederà. Questa è una lega che si fa bella della sua dimensione internazionale, ma che ha nella sostanza posto il veto ad allenatori non statunitensi. Figurarsi gli arbitri…
Un miglioramento può arrivare dalla legittimazione degli All Star di un gruppo di arbitri che sarà nel caso capace di riprendersi la titolarietà dell’arbitraggio e ri-guardagnarsi il rispetto e la facoltà di sbagliare in buonafede agli occhi dei campioni. Arbitri capace di dialogare, spiegare a torto o ragione le proprie scelte, trasparenti. Non permalosi, ma neppure servi. Umani e non soldatini da procedura. Che altrimenti la partita la possiamo far arbitrare a un computer. Se si recupererà il fattore umano, gradualmente, con un effetto domino, non sarà sempre e comunque colpa degli arbitri, la scusa più facile da accampare per i giocatori viziati e bizzosi. E a scalare non arriverà ai tifosi il messaggio che va sospettato di tutto e di tutti.
Perché quando si arbitra così male, se subentra quel tarlo, persino a torto come in questo caso, allora le partite perdono credibilità e appeal. La cosa peggiore che possa succedere a un bel prodotto esibito in vetrina da uno showroom globale di lusso…