I Dallas Mavericks, dopo un mese di gennaio disastroso fra roster decimato dai contagi e rendimento sotto le aspettative, stanno lentamente riprendendo quota e sono tornati ad orbitare in quella zona playoffs che ad inizio stagione era vista come l’obiettivo minimo.
Al contrario di un Luka Dončić costantemente in formato MVP, Kristaps Porziņģis era stato protagonista di una partenza tutt’altro che convincente; nell’ultimo mini filotto di 5 vittorie in 7 partite ha fatto invece registrare numeri molto più convincenti al tiro. La fiducia sembra essere in crescita, ma non è tutto oro quel che luccica: i Mavs possono accontentarsi di questa versione del lettone o necessitano di qualcosa in più a lungo termine?
Cosa funziona: percentuali e consapevolezza
Le prime dieci uscite stagionali ci avevano regalato un KP troppo brutto per essere vero: ad esclusione di due partite contro Pacers e Raptors l’Unicorno non era mai riuscito a scollinare la soglia del 50% al tiro, condizione necessaria e sufficiente per un giocatore in grado di conquistarsi pochi tiri liberi e con scarse doti di passatore.
Com’era prevedibile, sul lungo periodo la mano ha iniziato a scaldarsi, con l’apice raggiunto nella partita contro i New Orleans Pelicans: 13/21 dal campo con ben 8 triple messe a segno, per un totale di 36 punti.
KP è un giocatore che sembra aver bisogno di più minuti consecutivi trascorsi in campo per scaldarsi ed iniziare ad acquisire fiducia in se stesso. Dončić, che nonostante la giovane età pare sempre attento a queste dinamiche, sa bene come il compagno abbia bisogno di toccare tanta palla in determinati momenti della partita e della stagione ed è stato ben felice di servirlo con continuità una volta accortosi del momento favorevole.
Allo spettatore occasionale tiri come questi sembrano rari colpi balistici: per un Porziņģis in fiducia, in realtà, sono praticamente il pane quotidiano.
Limitare il discorso alle mere percentuali non rende giustizia a tutta quella capacità di condizionare le difese avversarie, che a questo punto non sono più così felici di buttare addosso a Dončić due o tre uomini per fermarlo sapendo di un cecchino pronto a punirli.
Questa squadra, com’è sempre bene ribadire, è pensata e concepita con Porziņģis stabilmente coprotagonista: è lui la vera chiave del sistema 5 out che tanto bene ha fatto nella scorsa stagione. La sua presenza permette anche di schierare in ala giocatori non così pericolosi da tre punti ma importanti per bilanciare la difesa, come successo con Michael Kidd-Gilchrist negli scorsi playoffs e come potrebbe succedere ad esempio con James Johnson o con un Josh Green maggiormente rodato.
Non è un caso che nel mese di febbraio la percentuale da 3 punti di squadra dei Mavericks abbia sfiorato il 40%, con tangibili miglioramenti nell’Offensive Rating finalmente tornato in top 10 NBA. Calendario morbido, maggiore rodaggio e tiro che, giocoforza, prima o poi entra più frequentemente: a volte basta semplicemente un po’ di pazienza.
Cosa non funziona: difesa e sfruttamento della fisicità
Vi è piaciuto il discorso sul legame tra l’attacco di Porziņģis e quello degli interi Mavs? Bene, allora potete prenderlo e applicarlo uguale identico alla difesa, semplicemente capovolgendolo. La compagine guidata da coach Rick Carlisle non è mai stata una squadra di stampo difensivo, ma le primissime partite precedenti alle tante assenze per coronavirus avevano fatto ben sperare e le aspettative di un rendimento discreto nella propria metà campo non sembravano campate per aria.
Passato un periodo francamente ingiudicabile, però, quel minimo di solidità conquistata sta rapidamente colando a picco: il Defensive Rating di 114.6 parla da solo, con Trail Blazers, Pelicans e Kings come uniche squadre ad aver fatto peggio di Dallas.
La struttura fisica di Porziņģis probabilmente non gli permetterà mai di essere un difensore d’eccellenza, con un baricentro troppo alto per difendere i piccoli e un tonnellaggio insufficiente per tenere botta contro centri dalla spiccata fisicità. KP non spicca neanche per le sue doti di comprensione del gioco, sbagliando frequentemente il tempismo degli aiuti o banalmente anche la postura del corpo.
Tutto ciò è cosa nota da ben prima di questa manciata di partite; ciò che invece è preoccupante è che Kristaps non paia metterci nulla di suo per cambiare le cose. Sicuramente c’è ancora qualche strascico puramente fisico, ma probabilmente è a livello psicologico dove è necessario uno scatto decisivo. Non è pensabile che un giocatore di 221 centimetri non riesca ad offrire quel minimo di protezione del ferro data semplicemente dal tenere le braccia alte: sono troppo frequenti le scene in cui giocatori molto più piccoli riescono a saltargli sulla testa semplicemente mettendoci il doppio della ferocia.
Il linguaggio del corpo è scoraggiante in entrambe le metà campo, a dire il vero: in attacco KP sembra muoversi come se si portasse dietro un corpo gracile e inefficace nel gestire i contatti. Quando prende posizione in post lo fa sempre con scarsa convinzione, facendosi scavalcare con troppa facilità, e sembra evitare il pitturato come la peste bubbonica.
Il range di tiro del lettone costringe le difese a marcarlo da molto vicino anche a grande distanza dal canestro: perché dunque, data la facilità nel mettere palla a terra, azioni come questa rimangono una felice eccezione?
Porziņģis non è sicuramente un giocatore completo. Non è in grado di creare granché né per sé né tantomeno per i compagni e non ha il dinamismo sufficiente né l’intelligenza tattica per giocare lunghi possessi lontano dalla palla. Vive e muore con il suo tiro, in poche parole, ma il suo range è praticamente illimitato e ha un tocco di qualità straordinaria.
Non ha alcun problema a tirare fuori un tiro dal palleggio contro difensori più bassi di lui e può battere in palleggio praticamente tutti i giocatori della sua stazza. In linea puramente teorica non esiste un archetipo di giocatore adatto per marcarlo, ad esclusione forse di gente come Giannis Antetokounmpo o Anthony Davis. Il problema vero è che la maggior parte delle volte lui gioca come se non lo sapesse, prendendosi brutti tiri per pigrizia o mancanza di consapevolezza.
Il tempo è dalla sua parte, ma siamo quasi a metà del secondo anno del suo contratto al massimo salariale e le partite giocate con un rendimento adeguato al suo compenso sono state finora decisamente troppo poche. Sul breve termine le cose sono migliorate, ma senza una miglior selezione di tiro non sono così convinto che questa momentanea efficacia possa essere mantenuta in contesti più probanti.
La True Shooting% è comunque la migliore in carriera e man mano che Maxi Kleber tornerà a pieno regime le sue lacune difensive saranno coperte più facilmente: Kristaps ha dunque tutte le carte in regola per raggiungere finalmente livelli consoni al suo talento, ma il momento di fare il salto è arrivato. Difficilmente un altro rinvio sarà accettato.