I Jazz proseguono nella loro cavalcata, imperterriti. Non si fermano più. E poco importa se davanti ci sono squadre tra le più titolate ad Est, in visita alla Vivint Arena. Stavolta tocca ai Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo – lo stesso destino capitato ai Celtics due giorni fa – liquidati con 69 punti nel primo tempo per la sesta vittoria consecutiva. La diciassettesima nella ultime diciotto uscite, a conferma del miglior record della lega.
La solidità di un roster ben amalgamatosi negli anni, messo in campo in modo impeccabile da coach Quin Snyder, si incontra con una fiducia crescente di partita in partita, ed i risultati sono lì a confermarlo. Ormai non si stupisce più nessuno, neanche leggendo un tabellino che racconta la solita prestazione della coppia formata da Rudy Gobert e Donovan Mitchell (27 e 12 rimbalzi per il francese, 26 con 8 assist e 6 rimbalzi per la guardia, pur tirando 1 su 9 da dietro l’arco), i 25 punti di un super Clarkson dalla panchina, ed il massimo in carriera impattato da Joe Ingles, anche lui a quota 27 totali.
È proprio l’australiano a suonare la carica in avvio di partita, realizzando 4 triple su altrettanti tentativi nei primi minuti (5 totali nel primo quarto), tracciando una direzione felicemente seguita dal resto dei compagni, che giocano insieme in modo meraviglioso. Nonostante l’assenza prolungata di una pedina importante come Mike Conley, malgrado la serata di pausa di un Bogdanović impreciso, e piuttosto scollegato con l’attitudine sicura dei compagni.
Che danno la sensazione di svolgere un compito sulla carta non facile senza sforzi particolari, come se tutto fosse calcolato ed il copione recitato nei tempi previsti. E per i Bucks è notte fonda.
Che Giannis non basti – anche in assenza di Holiday – è storia nota, e nonostante una prestazione importante di Brook Lopez, “la squadra più forte della lega” è decisamente difficile da superare, per buona pace di tutti. Anche di Coach Budenholzer, che probabilmente accetta di buon grado un avvio di stagione tutt’altro che da schiacciasassi, memore degli epiloghi deludenti negli ultimi due campionati vissuti come squadra da battere in regular season.
Ingles non è più un’arma segreta
Giunto alla settima stagione nella lega, anche Joe Ingles non stupisce più nessuno, e continua a proporre concretezza preziosa pur giocando di meno rispetto agli ultimi anni. Partendo spesso dalla panchina e restando in campo appena 26 minuti di media, ma garantendo quell’efficienza che lo ha reso perno di Utah negli ultimi campionati.
Nella notte chiude con un ottimo 7 su 9 da tre punti, regalando 5 assist e contribuendo a facilitare la manovra offensiva dei suoi, forte di un’intelligenza cestistica conclamata. Confermata da una visione di gioco di prim’ordine. Soprattutto, offrendo coraggio in avvio ai compagni, e lanciando messaggi inequivocabili agli avversari, riguardo alla serata che li attendeva.
Una vera e propria mosca bianca nel panorama NBA, sia per caratteristiche tecniche che per fisicità: classico giocatore senza fronzoli, con attitudine da duro, che a Utah sono abituati ad amare e come ne hanno visti in passato, nelle stagioni più memorabili.
Nato ad Adelaide 33 anni fa, Ingles è giunto tra i pro decisamente tardi, dopo aver avviato la carriera in patria militando nei South Dragons di Melbourne. Seguito inizialmente dai Lakers dopo stagioni più che convincenti, si fa vedere alle Olimpiadi del 2008 pur partecipando da comprimario, ma esplodendo con un paio di giocate di rilievo nella sfida proprio contro il Team USA.
Il sogno però sembra infrangersi rapidamente, dopo due esperienze alla Summer League di Las Vegas senza ottenere contratti, disputando un paio di discrete stagioni a Granada nel campionato Spagnolo. Continuando a lavorare in modo incessante sul suo gioco, smussandone gli angoli ed offrendo ottime prestazioni dapprima a Barcellona e poi con il Maccabi Tel Aviv, per Ingles le porte della NBA sembrano aprirsi nuovamente. A maggior ragione dopo gli ottimi Mondiali FIBA 2014, disputati con la nazionale.
Ma il suo percorso non è ancora destinato ad incontrar la discesa, con i Clippers che lo tagliano dopo appena 5 gare di preseason, ed un approdo a Utah senza troppe convinzioni, pregando per una chance da saper cogliere, cosciente di funzionare da riempi roster.
Certo, le occasioni bisogna sapersele anche costruire, e Ingles riesce a farsi trovar pronto nella partite che contano – quelle di post season – ottenendo la consacrazione definitiva con Utah che elimina Oklahoma City al primo turno nel 2018. A coronamento di una stagione vissuta da “arma segreta” dei suoi, probabilmente la migliore in carriera, da stabile nel quintetto titolare dei Jazz.
Più o meno da allora, impossibile non attenderne un guizzo quando il gioco si fa duro, perfetto ad inserirsi ad ombra dell’ottimo Mitchell. Ideale per accompagnarne la crescita, anche in materia di consapevolezza nei propri mezzi.
Per i Jazz è lecito sognare?
Una coppia ben assortita che si conosce a memoria – dopo aver risolto contrasti causati dai noti fatti circoscritti alla pandemia – e sostenuta da un organico equilibrato e ben messo in campo.
Le analogie tra questi Jazz e quelli che raggiunsero per due anni le Finals a fine anni novanta, possono far ben sperare il pubblico di Salt Lake City. Mitchell e Gobert non sono assolutamente speculari agli storici Stockton e Malone, ma rappresentano l’asse portante sulla quale puntare, sostenuta da un roster profondo all’interno del quale possono emergere anche giocatori meno conclamati. E l’importanza ricoperta da Favors e O’Neale ne è perfetta conferma.
Anzi, se vogliamo provare ad analizzare il talento effettivo di ogni giocatore, questa versione di Utah è forse più profonda di quanto non fossero i Jazz delle meraviglie allenati dal compianto Jerry Sloan. È semplicemente la NBA che è cambiata, con la diffusione più estesa di un volume di valori assoluti più alto. Anche per questo, rispetto ad una squadra che ai tempi rappresentava la principale alternativa ai Bulls di Jordan, questi Jazz continuano ad esser guardati come outsider nella Western Conference dei vari LeBron, Kawhi, Jokić e Curry.
Eppure come avvenuto ai tempi di Sloan, Utah ha saputo partire da una coppia costruendosi in modo progressivo, raggiungendo a piccoli passi una struttura di gioco che adesso – a vederla funzionare tanto bene – appare difficile da far saltare in aria. Anche i ruoli per importanza ricoperta, sembrano far ben sperare se osservati in paragone con la versione più amata nella storia della franchigia.
Ingles, Bogdanović e Favors sono decisamente più forti, in assoluto, di quanto non fossero Russell, Anderson o Greg Foster. Mentre pur spostando il fulcro del gioco dall’asse point guard/power forward a quella guardia/centro, questa versione dei Jazz può disporre di un organizzatore di gioco di esperienza come Mike Conley, capace sia di gestire che di creare quando necessario.
Ed a proposito di soluzioni offensive in circostanze complesse, difficile trovar di meglio rispetto a Jordan Clarkson, soprattutto per importanza provenendo dalla panchina. L’erede effettivo del miglior Lou Williams, anche in prospettiva Sixth Man of the Year.
Insomma, i numeri per proseguire con questo cammino ci sarebbero tutti, il problema sta nel dislivello apparente con le due grandi attesissime ad ovest. I soliti Lakers e Clippers.
Che Gobert possa rappresentare un minus in post season è pericolo abbastanza conosciuto, almeno tanto quanto è risaputa la capacità di elevare il proprio gioco da parte di Mitchell, quando la palla inizia a scottare. Non può bastare però uno splendido agonista simile, seppur in crescita evidente anche a livello di attitudine, e la profondità sopracitata del roster risulta comunque di livello inferiore rispetto alle soluzioni messe sullo scacchiere dalle due losangeline.
Difficile, anzi, impossibile immaginarsi i Jazz avere la meglio, anche se dovessero consolidare questo impressionante avvio di stagione. Di contro però, questo campionato più di altri può presentare insidie e variabili destinate a cambiar le carte in tavola in modo improvviso, e se mai dovessero presentarsi condizioni particolarmente fortunate in un incrocio playoff, sarebbe un errore dar per scontato il risultato finale.
Sognare, quindi, è lecito in quel di Salt Lake City. E non potrebbe essere altrimenti, guardando dalla vetta più alta della lega le altre squadre, con più che un pizzico di soddisfazione.
[…] Ingles cecchino infallibile, Utah continua a sognare, 13 Febbraio 2021 […]