Eccoci al secondo appuntamento con l’Osservatorio NCAA! Oggi vi spiegheremo perché Coach K, al secolo Mike Krzyzewski, va sempre rispettato; poi parleremo di pallacanestro nostalgica e di registi, ma non quelli che finiscono in Lotteria al Draft NBA, bensì di quelli che fanno felici i loro tifosi con la fantasia, la ferocia e l’intelligenza.
I due Mike
Ci sono due anime in Coach K: quella militare – non dimentichiamoci che Mike Krzyzewski è laureato a West Point ed è un ufficiale in congedo – che origina dal suo mentore Bobby Knight, e quella di Coach-guru ereditata in un lungo e doloroso processo con cui si è confrontato quotidianamente con la sua nemesi Dean Smith, andando col tempo ad assorbirne alcuni aspetti della personalità. Queste due anime vanno prese bene in considerazione andando ad analizzare le polemiche sorte dopo la decisione di cancellare le gare di preseason.
Il coach di Alabama, Nate Oats, ha correlato la cancellazione con le sconfitte casalinghe di Duke, allenata da Coach K, contro Michigan State ed Illinois e alle difficoltà della squadra in questo inizio di stagione; Oats si è poi scusato, prima telefonicamente col coach di Duke e poi pubblicamente, ma intanto una parte dei media ha attaccato il coach più vincente della storia della NCAA, che poche settimane prima si dichiarava pronto ad affrontare il Covid con spirito guerriero per poi avanzare dubbi circa l’opportunità di affrontare in questo modo la pandemia, mandando dei giovani allo sbaraglio. Certamente una contraddizione, ma che ben incarna la lotta fra il soldato, che continua a marciare, e l’allenatore, che pensa al bene dei suoi ragazzi.
Va considerato che Coach K rientra ormai nella categoria ad alto rischio coi suoi 73 anni ed ha tutto il diritto di non sentirsi al sicuro; bisogna poi ricordarsi sempre che non stiamo parlando di atleti professionisti, ben pagati e pronti a prendersi rischi in uno sport di contatto come il basket, ma di studenti-atleti che rischiano di contrarre il Covid senza avere alcuna remunerazione economica. Ricordiamoci che solo l’1.2% dei 18.816 atleti di Division I nel 2020 che giocano a pallacanestro hanno reali chance di arrivare alle NBA, percentuale che sale al 21% parlando di tutti i campionati professionistici mondiali, mentre il 79% rimanente giocano a basket e studiano per tentare altre carriere.
La vicenda di Keyontae Johnson, stella di Florida collassato a terra dopo una schiacciata nel derby con Florida State e che per qualche ora ha lottato per la vita nel reparto di cure intense ci mette in guardia. La sua diagnosi è infatti una miocardite acuta, guarda caso una delle possibili – e pericolose – conseguenze del coronavirus che il ragazzo aveva contratto in estate. Ora Johnson è fuori pericolo, ma la sua carriera a rischio: siete ancora dell’idea che Coach K volesse evitare altre sconfitte in un Cameron Indoor Stadium – che senza i Cameron Crazies è ridotto ad un museo – o invece che ha delle ragioni per preoccuparsi della salute dei suoi ragazzi come un amorevole nonno? Nel vero senso della parola, visto che a roster c’è pure suo nipote Mike Savarino…
Va anche detto, per completezza d’informazione, che Coach K è pagato milioni dall’università e che gli studenti-atleti hanno accesso con borsa di studio gratuita per lo sport ad atenei che si sognerebbero altrimenti, per carenze economiche e/o accademiche e che garantiscono loro un futuro lavorativo retribuito comunque alla grande, oltre la carriera nel basket, da paracadute, in caso di laurea conseguita. E che gli atleti, nel mondo, hanno risposto alla grande, per giovane età e super condizione atletica, alla temibile sfida del contagio Covid. Infine, che i giocatori senza partite sarebbero comunque a rischio pandemia, in ogni caso. Insomma, la situazione ha molte facce e poche certezze. Se non che Coach K ha le sue argomentazioni non campate per aria da mettere sul tavolo.
La Duke di campo tra infortuni e lenta crescita
Parlando invece dell’aspetto sportivo, a Duke l’infortunio al piede di Jalen Johnson ha paradossalmente dato alla squadra un assetto tattico più logico, con Matthew Hurt (18.8 ppg 7.6 rpg) spostato al suo ruolo naturale di 4 mentre il grad transfer da Columbia Patrick Tape – lento e scolastico, ma esperto – ed il freshman di 2.16 Mark Williams (notevoli alcuni suoi movimenti con tiro in gancio) inseriti come centri. Questo assetto ha dato più solidità ai Blue Devils, con gli esterni DJ Stewart e Jeremy Roach a beneficiarne nella vittoria su Notre Dame.
Intanto abbiamo scelto il Blue Devil del cuore per la stagione 2020-21: Jaemyn Brakefield, ala mancina muscolare, non di enorme talento, ma di grande intensità, che ci ricorda molto quel Jason Burnell transitato a Cantù ed ora grande acquisto della Dinamo Sassari.
Pastner, la scuola Calipari paga a Georgia Tech
Josh Pastner, cresciuto sotto l’egida di Lute Olson e John Calipari, era considerato uno dei coach emergenti della NCAA una decina di anni fa grazie alle sue doti di reclutatore, ma la sua carriera sembrava già in fase calante. Finita l’esperienza a Memphis, giunge quattro anni fa a prendere in mano uno dei programmi più drammaticamente in crisi del college basketball, incapace di replicare agli anni d’oro di Bobby Cremins. Georgia Tech è invece tornata ad essere una squadra da rispettare anche nella iper-competitiva ACC.
Essenzialmente basa le sue fortune sul classico asse play-pivot: Jose Alvarado non è il pitcher dei Tampa Bay Rays, bensì una point guard dal Queens di origine portoricana ed è uno dei migliori difensori sulla palla della NCAA, un vero piranha alla ricerca perenne del pallone come se fosse la coscia di un caititu-mondè a puccia nel Rio delle Amazzoni, mentre il centro è il più classico che si può sognare, tanto da ricordare quei lunghi anni ottanta alla Ed Pickney, ed ha pure un nome classico come Moses Wright: viaggia a quasi 20 di media ed ha movimenti in post e tiri in semigancio in grado di far felici i tifosi old-timer. Essendo un senior sarà però più facile vederlo in Europa piuttosto che in NBA il prossimo anno.
Iowa, un tuffo nel passato. Ma funziona
Abbiamo già parlato di Luka Garza, ma come giocano gli Iowa Hawkeyes? Beh, sono uno spasso anacronistico. Sembra una squadra degli anni Sessanta/Settanta che ruota tutta attorno al suo totem e presenta un quintetto di tutti ragazzi bianchi dove il leader è il play Jordan Bohannon (1.85, 6.9 ppg 4.3 apg), al suo fianco sul perimetro troviamo CJ Fredrick (1.92 10.4 ppg 55.9% 3pt) e Connor McCaffery (1.95) mentre il “falso 4” è Joe Wieskamp (1.98 15.8 ppg 6.9 rpg).
Difendono tutti come se fossero in missione per conto di Dio, passano la palla a Garza appena possono e tirano da tre sui suoi scarichi se hanno dieci centimetri di spazio, tanto che il 42 % dei tiri totali di Iowa parte dalla linea dei tre punti mentre il 43% dei tiri presi da due sono stati scagliati da… Luka Garza stesso. Insomma, squadra spassosissima, ma probabilmente molto scoutizzabile quando conterà al Torneo NCAA.
Rebraca, mi manda (nel Dakota) papà
Uno dei giocatori europei più interessanti in questo 2020-21 è un figlio d’arte: Filip Rebraca, nato dalla progenie di quel Zeljko visto a Treviso. L’ala serba di 2.05 è al suo terzo anno coi North Dakota Fighting Hawks ed è in costante miglioramento nonostante giochi in una Conference non memorabile come la Summit League, che annovera scuole soprattutto del Dakota, Nebraska ed Oklahoma.
Rebraca viaggia a quasi 17 punti ad allacciata di scarpe, mostrando ottima mano anche nel tiro da fuori e capacità di correre in transizione. Purtroppo come esplosività e capacità difensive siamo lontani anni luce da quelle di suo padre per cui – esaurito il suo quadriennio nelle erbose e ventose pianure del Dakota – ci aspettiamo di rivederlo in qualche squadra serba per provare a crearsi una carriera professionistica nel Vecchio Continente.
McClung sinonimo di spettacolo in Texas
Spinti dal vedere il clone di Larry Bird Brady Manek – che per la cronaca non ha giocato bene – ci siamo seduti a guardare Oklahoma vs Texas Tech, partita godibilissima con un finale thriller in pieno stile college basketball. I nostri occhi si sono invece concentrati sul duello fra le due point guard in campo – assolutamente agli antipodi l’uno dall’altro – Austin Reaves (1.94 15.9 ppg 5.7 apg) dei Sooners e Mac McClung (1.88 15.1 ppg 3 apg) dei Red Raiders. Se la point guard di OU è un giocatore razionale ed essenziale, quello di TTech è genio acrobatico e sregolatezza.
Entrambi sono transfer, infatti Reaves è un senior che ha passato i primi due anni a Wichita State mentre McClung è un junior con due anni a Georgetown sulle spalle ed un tentativo (ritirato) di candidarsi al draft NBA. Pur tirando entrambi con percentuali scadenti sono loro a prendersi le responsabilità nel momento decisivo della gara: la sfida la vince Mac McClung con un gran canestro in acrobazia e quattro tiri liberi a segno, mentre Reaves segna una tripla che tiene vivi i Sooners ma sbaglia un comodo tap-in sulla sirena per mandare l’incontro ai supplementari. Bella sfida.
Il derby (in tono minore) del Kentucky
Carlik Jones è nettamente il miglior grad transfer di questa stagione. Pescato da Chris Mack a Radford dove lo scorso anno fatturava 20 punti 5.1 rimbalzi e 5.5 assist a partita – unico in NCAA con statistiche simili – ha preso subito in mano le redini di una Louisville molto rinnovata per quattro/quinti del quintetto base. Point guard dal fisico compatto e dalla notevole forza fisica, che gli permette di spaccare in due le difese in penetrazione, è già il miglior regista della ACC e, con l’aiuto della guardia David Johnson, ha trascinato i Cards alla vittoria nel derby con Kentucky – pure sfortunata col tiro della vittoria di Sarr che gira ed esce dal ferro – giunta intanto alla drammatica cifra di 1 vittoria e 6 sconfitte per la peggiore partenza della storia dei Wildcats dal 1929.