Fanno 36, proprio oggi. LeBron James compie gli anni. L’occasione per ripercorrere le età di un campione tanto epocale quanto polarizzante. Sarà colpa dei tempi, dei social network, ma tra una prodezza sul parquet e una polemica fuori, il Prescelto fa sempre discutere. E divide, con il suo essere simbolo sociale e talvolta politico, col suo essere fenomeno in campo, ma pure Coach, General Manager e persino agente in incognito, malignano con un sussurro i bene informati facendo riferimento a Klutch Sport.
Di sicuro è partito dal niente, o quasi LeBron, da Akron. Da St Vincent St Mary, High School del North East Ohio, non proprio Versailles. Di sicuro LeBron ha vinto in modo sensazionale, da profeta in patria e pure da “mercenario” secondo qualcuno. Di sicuro le cadute sono state rovinose; le Finals contro Dallas più di ogni altra, The Decision autogol mediatico epocale. Di sicuro l’NBA è, a torto o ragione, una lega di giocatori come nessun’altra nello sport americano e nel mondo, per merito o per colpa sua. Decidetelo voi.
A The Shot abbiamo voluto festeggiare il suo compleanno, da campione in carica, MVP delle Finals in carica, paragonandolo a un artista. Perché quello è, nell’essenza, quando si scorda d’essere una multinazionale in movimento. Quando gli parli di basket e per un attimo si “scopre”, abbassa la guardia e dà voce all’amante perdutamente innamorato della pallacanestro. Che sa ancora infervorarsi quando discute del gioco. Un artista dei canestri.
E allora “come un Picasso qualunque” ne abbiamo individuato il suo periodo blu…e colorato gli altri…Raccontandolo. Ringraziandolo per le emozioni e lo spettacolo. Senza fargli sconti, però, perché non sempre ha vinto anche quando ha celebrato, come non sempre ha perso quando è stato sconfitto. Comunque ha sempre saputo rialzarsi.
Le redazione gli rende omaggio con 4 ritratti diversi: un unico personaggio tratteggiato da 4 autori. Uno per ogni sua età agonistica. La tavolozza ce la mette The Shot per tratteggiarne i colori più forti di una carriera che promette di durare a lungo, dopo il recente rinnovo contrattuale sino al 2023 per i Los Angeles Lakers.
Il periodo verde: il prescelto di Akron
Di Andrea Bandiziol: La maglia di St Vincent Saint Mary’s
Molti si erano schierati apertamente contro la decisione presa da ESPN. Billy Packer, commentatore NCAA per CBS, era stato particolarmente esplicito a riguardo: “Se CBS mi avesse chiesto di commentare la gara, non lo avrei fatto”. Se quelle parole fossero sincere o fossero dettate dal fatto che non fosse il suo network a trasmettere in diretta nazionale la partita tra St.Vincent-St.Mary e Oak Hill la notte del 12 dicembre, bensì ESPN, non lo sapremo mai.
Da un lato il giocatore di high school più famoso di sempre, LeBron James, dall’altro la squadra che l’anno prima era stata di Carmelo Anthony, ora freshman sensazione a Syracuse. A dirla tutta anche Dick Vitale, storico commentatore NCAA per ESPN, fu inizialmente titubante quando il suo network gli chiese di commentare una partita il cui unico scopo era mettere in mostra il senior più famoso del Paese, quello che, si rumoreggiava, avesse persino pensato di andare in NBA alla fine del suo anno da junior, dopo essere già apparso anche sulla copertina di Sports Illustrated.
Bastarono pochi minuti a far ricredere Vitale: “Rosso, lascia che io ti dica una cosa”, disse Vitale al suo compagno Bill Walton al primo timeout, “Questo ragazzino è persino meglio di come lo avevano pubblicizzato. È meglio di quello che le persone dicono, e so che questo può essere difficile da credere”.
Chiunque conoscesse LeBron sapeva bene che il ragazzo da Akron non avrebbe sofferto la pressione della gara. Era abituato ad avere gli occhi di tutti puntati addosso: John Lucas, l’allora coach dei Cleveland Cavaliers, gli chiese di partecipare ad allenamenti insieme alla sua squadra (la lega lo sospese per due partite per questo). James aveva creato un indotto, nel suo anno da senior, da 1.5 milioni di dollari e si stimò che nella stessa finestra temporale la sua scuola avesse ricavato 250.000 dollari in più solo grazie alla sua presenza.
Dato che la palestra della scuola era troppo piccola per il pubblico che James attirava, le gare di St.Vincent-St.Mary si giocavano nel palazzetto di University of Akron, dove i biglietti a bordo campo per una partita di Regular Season potevano arrivare a costare più di cento dollari. Per i meno abbienti, le partite di James potevano essere guardate anche tramite un servizio pay-per-view al costo di sette dollari a partita.
Le quattro linee telefoniche della scuola erano continuamente intasate, mentre Adidas, Nike e Reebok sgomitavano per fornire a James e compagni scarpe, maglie ed accessori vari. Alla fine la spuntò Adidas, ma Nike aveva una strategia per il lungo termine (che alla fine porterà LeBron a firmare un contratto da 90 milioni in sette anni prima ancora di mettere piede in NBA), che prevedeva tra le altre cose l’assunzione del suo amico fraterno Maverick Carter, che nel giro di qualche anno sarebbe diventato anche il responsabile marketing di LeBron.
Quella notte, LeBron sbagliò i primi tre tiri dal campo, ma chi l’aveva già visto giocare sapeva che non ne avrebbe risentito. James, quella sera con ai piedi delle Tracy McGrady fornitegli da Adidas per l’occasione, era sia fisicamente che mentalmente molto più maturo dal classico diciassettenne. Chiuse la partita con 31 punti, 13 rimbalzi e 6 assist, guidando la sua squadra ad una larga vittoria.
A fine partita, Walton fermò LeBron mentre questi stava uscendo dal campo. “Congratulazioni”, gli disse. LeBron rispose sinceramente: “Grazie per essere venuto”. “No”, rise Walton, “Grazie a te per avermi ospitato”.
*I virgolettati del capitolo sono tratti da “Boys Among Men” di Jonathan Abrams
Il periodo oro (e vinaccia): profeta in patria a Cleveland
Di Cosimo Sarti:
I Cavaliers sono la squadra che peggio ha saputo tradurre in successi la presenza di LeBron James: un misero anello in undici stagioni, bottino assai magro se rapportato al giocatore, paragonabile solo all’incessante infrangersi contro i Celtics di Jerry West una cinquantina di anni fa. “The Logo” fu l’unico a vincere un MVP delle Finals da perdente, lussuosa pacca sulla spalla a cui pareva destinato anche il “Prescelto” che, ad una sconfitta dal termine della sua nona stagione in Ohio, non era ancora riuscito a cancellare dalla pagina sbagliata del libro dei record la città dove nessuno trascorre le vacanze.
Prima della storica rimonta del 2016, appunto, Cleveland era stata una zavorra inamovibile nella scalata al Mt. Rushmore della pallacanestro, e avrebbe potuto continuare ad esserlo senza uno dei grandi capolavori della carriera di LeBron. No, non lo scatto da metà campo per stoppare Iguodala, ma una rincorsa partita da molto, molto più lontano che lo ha proiettato in cima all’Olimpo del Gioco.
LeBron è sotto ai riflettori fin dal suo penultimo anno di high school, quando la sua faccia imberbe fu stampata su oltre tre milioni di copie di Sports Illustrated accompagnata dalla scritta “The Chosen One”. Al ragazzo la cosa piacque a tal punto che decise di tatuarsi a caratteri cubitali sulla schiena quello che divenne inevitabilmente il suo soprannome; giovanissimo e meravigliato da tutta l’attenzione ricevuta, non aveva idea del peso insostenibile dell’inchiostro che aveva deciso di caricarsi – letteralmente – sulle spalle
Trattenuto vicino a casa dai Cavs con la prima scelta assoluta, il “Prescelto” divenne immediatamente “King James”, il Re di Cleveland. La capitale del suo stato natale è talmente desolante da far ritenere la propria fondazione un grosso sbaglio, “The Mistake On The Lake”, oltre che essere la città sportivamente più derelitta d’America. In questo contesto, con la possibilità di mettere una pezza all’errore sul lago Erie, il ventenne LeBron era tutto e tutto gli era dovuto, ma dalla sincera ammirazione dei suoi sudditi adoranti si stava facendo trascinare ingenuamente in alto senza avere il paracadute.
L’inevitabile caduta si è materializzata in un tonfo clamoroso in mondovisione, per nulla attutito da un’orrenda camicia a quadretti rosso pic-nic sbiadito. Un attimo prima tutto era lecito, dal tatuaggio alla nuvoletta di gesso, dai balletti all’autoproclamarsi Re, perché una città disperata vedeva in lui il salvatore; nell’istante in cui ha reso nota la “Decision” di portare il proprio talento a Miami, James si è trovato di fronte ad un’ostilità che probabilmente neanche si aspettava.
I suoi ormai ex sudditi sono scesi in strada e hanno illuminato Cleveland bruciando la sua canotta numero ventitré, rinfacciandogli tutto quello che fino al tramonto gli avevano concesso con l’appoggio in Comic Sans del proprietario dei Cavs, Dan Gilbert. Quella notte ha imparato nella maniera più brusca quanta cura sia necessaria per cucirsi addosso il personaggio amato da tutti che aveva sempre desiderato essere; a partire dal celebre “What should I do” della Nike, ha preso saldamente in mano la narrazione della propria storia e con pazienza ha iniziato la risalita, questa volta senza lasciare nulla al caso.
Quattro anni dopo, LeBron ha seguito un percorso inverso nella direzione ma simile nel principio: ha lasciato una squadra il cui nucleo era ad un vicolo cieco per una franchigia con un astro nascente, tante giovani pedine di scambio e la fresca prima scelta assoluta. E ne è uscito di nuovo “Chosen One”, di nuovo amato dalla città che lo aveva accolto ancora diciottenne, a cui ha perdonato tutto per farsi perdonare a sua volta, riuscendo a volgere a suo favore la disperazione che era stata foriera di tanta collera. Un colpo da vero maestro della comunicazione, che avrebbe però avuto un significato ben più effimero se “King James” non fosse riuscito, sul parquet, a mantenere la promessa fatta al suo popolo.
Il periodo rosso Heat: i chiaroscuri glamour a South Beach
Di Davide Possagno:
A seguito di questa scelta, LeBron James diventò a tutti gli effetti il “villain” della NBA, scappato dalla sua Cleveland senza essere riuscito a vincere un titolo per raggiungere due tra i migliori giocatori della lega e formare sulla carta un superteam, scegliendo così la strada apparentemente più facile per arrivare al tanto agognato anello, l’unico riconoscimento che mancava al suo palmarès. Le antipatie verso James e Miami si fecero ancora più insistenti dopo il “Welcome Party” dei nuovi Heat, in cui James dichiarò, ancor prima di aver messo piede in campo assieme ai nuovi compagni, che gli Heat avrebbero vinto molteplici titoli.
Di quei sette/otto anelli pronosticati da LeBron James, gli Heat ne vinsero “solo” due; quello dal 2010 al 2014 era un superteam solamente in quanto a talento, perché sia il fit tra i giocatori che la costruzione del roster spesso lasciarono a desiderare. Per poter firmare i “Big Three”, Miami dovette fare una sign-and-trade sia con i Cavaliers che con i Raptors; Wade, James e Bosh dovettero persino rinunciare a 15 milioni complessivi in 4 anni ciascuno per firmare con la franchigia di South Beach, e questo ridusse la possibilità di migliorare un organico che non aveva comprimari di buon livello compatibili con lo stile di gioco delle stelle.
Alle Finals del 2011 emersero prepotentemente tutti i difetti degli Heat, che sfociarono in quello che tutt’oggi è il principale neo della carriera di James, ovvero la fatidica gara 4 in cui lui finì con 8 punti in oltre 45′: Dallas pareggiò la Serie sul 2-2 per poi vincere anche le successive due partite e, di conseguenza, il titolo.
L’opinione comune raffigura un LeBron che mentalmente non entrò mai nella serie (viaggiò a 17.8 punti di media con il 48% dal campo, 32% da 3 e il 60% ai liberi su appena 3.3 tentativi), ma la realtà è che i Mavericks e Coach Carlisle prepararono ogni partita in modo da sfruttare le debolezze di Miami, in particolare la scarsa abilità degli avversari (tra cui James) di segnare da fuori, chiudendo l’area e alternando ripetutamente difese a uomo e a zona.
Un proverbio recita che una volta toccato il fondo non si può far altro che risalire, ed è esattamente così che fece James la stagione successiva. Nell’anno del lockout (2011-2012, si iniziò a giocare a dicembre), LeBron condusse gli Heat al primo posto a Est e vinse il premio di MVP.
Prima d’approdare alle seconde Finals consecutive, LeBron trascinò i Miami Heat al successo in sette partite contro i Boston Celtics, l’allora bestia nera di James. Il simbolo di questa avvincente sfida non può che essere gara 6: sotto 3 a 2 nella Serie, con Bosh non al 100% e Wade sottotono, James sfodera una mostruosa prestazione da 45 punti (19/26 al tiro), 15 rimbalzi e 5 assist che consente agli Heat di impattare la Serie sul 3 pari.
In finale, Miami si trovò di fronte i giovani Thunder di Westbrook, Harden, Durant e Ibaka. Gli Heat persero gara 1 a Oklahoma City ma vinsero le successive quattro grazie soprattutto a un James dominante e, finalmente, a prestazioni importanti da parte dei vari comprimari (Chalmers, Battier, Miller). James conquistò così il suo primo titolo NBA con annesso premio di Finals MVP, togliendosi dalle spalle un gorilla il cui peso stava diventando opprimente.
L’avventura di LeBron a Miami si chiuse dopo la stagione 2013/14: dopo due titoli consecutivi il due volte Finals MVP si confermò agli stessi livelli dell’anno precedente sia in regular season che ai playoffs, ma il resto della squadra, soprattutto la seconda stella Dwyane Wade (solo 54 partite giocate nel 2013/14), iniziò a calare vistosamente, anche a causa dell’età avanzata dei vari comprimari. Gli Heat vennero surclassati dai San Antonio Spurs in 5 partite alle Finals nonostante un James da oltre 28 punti di media (con quasi 8 rimbalzi, 4 assist e 2 recuperi) tirando con il 57% dal campo e il 52% da 3 su 5.4 tentativi.
Il quadrienno a Miami di LeBron James contribuì enormemente a rendere il nativo di Akron il giocatore che tutt’oggi stiamo ammirando: imparò a convivere con il momentaneo ruolo da “villain” attribuitogli dai media, capì come vincere un titolo e per farlo dovette passare per la bruciante sconfitta del 2011; riuscì a rialzarsi, migliorare ulteriormente e acquisire una fiducia nei propri mezzi che, nelle successive nove stagioni, gli consentirono di vincere quattro titoli e di frantumare record su record.
L’esperienza alla corte di Riley terminò con due titoli, due premi MVP e di Finals MVP, numerosi quintetti All-NBA e All-Defensive, un bilancio sicuramente positivo ma che, viste le premesse, per alcuni potrebbe essere considerato non abbastanza. Di LeBron con la casacca degli Heat ricorderemo per sempre del rapporto in campo e fuori con uno dei suoi migliori amici, Wade, la splendida chimica ci ha regalato giocate iconiche che rimarranno nella storia della lega.
Il periodo gialloviola: la caduta e il riscatto a Los Angeles
Di Andrea Poggi:
Il 2 luglio 2018, alle 2.08 di notte Italiane, Adrian Wojnarowski twitta sul proprio profilo quel che tutti gli appassionati di Basket stavano aspettando, la decisione del “Re”. Da quel momento LeBron James è ufficialmente un giocatore dei Los Angeles Lakers, un matrimonio celebrato per diverse ragioni che vanno dalla famiglia al business, il tutto mantenendo al centro l’interesse per vincere.
LeBron James has agreed to 4-year, $154M deal with Lakers, Klutch Sports says.
— Adrian Wojnarowski (@wojespn) July 2, 2018
Il primo anno in maglia gialloviola non inizia nel migliore dei modi. LeBron, infatti, è un giocatore divisivo e non riesce a far breccia nei cuori di tutti i tifosi Losangelini essendo lui stesso uno dei più grandi rivali di Bryant, simbolo di una città intera, entrato e uscito dalla lega come Laker. James è un boccone amaro da buttare giù per tanti “die hard fans” di Bryant e dei purple&gold, così tanto amaro che alcuni “tifosi” arrivano ad imbrattare un murales dedicato al neoacquisto.
Ruined?? Don’t worry… the little scribbles and the offending “of” are gone. pic.twitter.com/SRXp3cyUlO
— Jonas Never (@never1959) July 8, 2018
Nonostante queste piccole vicissitudini extra campo, la stagione dei Lakers si prospetta molto più rosea delle precedenti: un gruppo di giovani – Lonzo, Ingram, Kuzma e Hart – capitanato dal “Re” in persona, cosa potrebbe andare storto? Sulla carta un posto ai playoff sembra assicurato ed è effettivamente così fino a quando James non si infortuna facendo sprofondare i Lakers dal quinto posto al decimo in un mese. La stagione è compromessa, a queste difficoltà sopraggiungono altri grattacapi tra cui le storie tese tra Pelinka e Magic Johnson.
I gialloviola si rendono conto che per vincere hanno bisogno di una rivoluzione: via i giovani per Davis – perfetta spalla per LeBron -, cambio in panchina con Vogel al posto di Walton e addio anche a Magic. Inizia ufficialmente un’altra era a LA.
Questo nuovo inizio è riscontrabile anche nel ruolo rivestito da LeBron; durante il primo anno, infatti, Walton ha avuto a disposizione un grande numero di trattatori di palla – Lonzo, Rondo, Stephenson, James e Ingram –, per questo decise di provare ad utilizzare LeBron senza palla, non come primo creatore del vantaggio. Il risultato fu pessimo, la squadra girava male e James era costretto a sopperire alle mancanze degli altri creatori di gioco. Come già detto, però, con Davis e Vogel cambia la musica: LeBron torna a gestire la stragrande maggioranza dei possessi offensivi della squadra, diventando la point guard sia in campo che sul referto.
Il cambio di stile del Re non è solo tecnico, ma è anche mentale. James, infatti, ha fatto un ulteriore balzo in avanti sul controllo della partita, diventa capace di accendersi e spegnersi in un batter d’occhio come conferma anche il “nostro” Nicolò Melli:
Un simbolo di dominio sia mentale che tecnico sono state le sue triple – che per la verità non sono la specialità della casa – da centrocampo che, come le zanne di un animale, mirano alla giugulare della partita. Una metamorfosi completa, dunque: ad inizio carriera un tiro ondivago e ora canestri da nove metri.
Il titolo vinto nella bolla non è la fine di un viaggio, ma l’inizio di una età dell’oro per L.A. ed anche una consacrazione ulteriore per lo stesso James: vincere con quella maglia, eguagliare i titoli dei rivali Celtics e alzare il trofeo di Finals MVP (miglior giocatore delle finali) a quasi 36 anni è una cosa che solo i migliori di sempre possono fare e noi dobbiamo riconoscerglielo, volenti o nolenti, è al pari dell’altro 23, indipendentemente da ciò che accadrà quest’anno.
LeBron, il nostro rispetto lo hai, non lo devi chiedere più.
“We just want our respect…and I want my damn respect too.”
— Sportsnet (@Sportsnet) October 12, 2020
LeBron James on winning a championship with the @Lakers and how the organization has earned respect after this playoff run. #LakeShow | #NBAFinals pic.twitter.com/fd8uYEk20p