Che cos’è il talento? Quanto incide concretamente all’interno di una prestazione sportiva e qual è il suo grado di autosufficienza rispetto all’allenamento individuale e, nel caso della pallacanestro, il suo potere coercitivo sulle dinamiche di squadra? Spaventa, concettualmente parlando, la vastità di risposte e riflessioni che domande del genere hanno il potere di generare. Verosimilmente non esiste un punto di vista univoco e privilegiato per affrontare la questione.
Con il basket NBA, nello specifico, viene più naturale farsi sopraffare o condizionare dalle emozioni, specialmente quando si viene travolti, più o meno consapevolmente, dal magnetismo insito nel talento del singolo. La pallacanestro è uno sport di squadra, certo, ma è inevitabile venire catturati da determinate tipologie di giocatori, spesso e volentieri da quelli che percorrono, ostentando apparente sicurezza, il sottilissimo filo che separa il virtuosismo dall’autodistruzione. Sul talento si sono sprecate tantissime parole nella letteratura, compresa quella sportiva. C’è chi lo ha elevato rispetto al “genio”, esaltandone l’anarchia e la libertà di scelta, e chi, invece, ne ha evidenziato le limitazioni. Senza allenamento, sofferenza ed esperienza, insomma, il talento fine a sé stesso non basta per ottenere grandi risultati.
Il grande scrittore Alessandro Baricco è riuscito a definirlo lucidamente nella maniera migliore: “Il talento vero è possedere le risposte quando ancora non esistono le domande”. Ne ha poi approfondito il carattere distruttivo e prevaricante, totalmente ignaro della realtà circostante. Ecco, il basket NBA è pervaso da caratterizzazioni e personalità di questo tipo. Giocatori dall’enorme ed indiscutibile talento, talvolta persino rivoluzionario, che si sono trovati a lottare impotentemente contro di esso, facendo a pugni con le proprie personalità, eccessive tanto nei punti di forza quanto in quelli più oscuri. Anime inquiete, aggreganti e divisive allo stesso tempo. Giocatori meravigliosamente eversivi, in grado di elevare la propria squadra ad un livello impensabile o di alternarne a tal punto gli equilibri da farla sprofondare nell’abisso dell’incertezza. Schegge impazzite, pregne di significati e contenuti ai quali, spesso, reagiamo in maniera inequivocabile. Bianco o nero, giusto o sbagliato, infimo o sublime.
Il “weirdo” tipico della poetica dei Radiohead, graffiante ed intenso come il suono sofferto della chitarra prima di un refrain liberatorio, è una caratterizzazione calzante quando si parla di personalità e talento nella storia della pallacanestro americana. La NBA espone un’infinita galleria di personaggi, ognuno appartenente ad una o più categorie. Semplicistico, forse un po’ freddo, impegnarsi ad incasellarli qua e là. L’imprevedibilità nelle scelte contiene la magia di questo sport. Sono spesso i giocatori meno convenzionali a fare la differenza tra vittoria e sconfitta. Quelli che sanno determinare e coinvolgere nelle piccole e grandi cose all’interno di una partita.
Nel bene e nel male.
D’Angelo Russell (Minnesota Timberwolves)
Dietro l’immagine sicura e sfrontata dell’uomo con il ghiaccio nelle vene, attaccante imprevedibile ed istintivo, a tratti sublime, si nasconde un ragazzo ingenuo ed immaturo, portatore naturale di estemporaneità. D’Angelo Russell è una delle guardie tecnicamente più accattivanti di tutta la NBA. Merito delle sue qualità offensive, indiscutibili anche per i suoi più crudeli detrattori, e della capacità di rubare la scena nei momenti in cui la partita deve trovare il suo padrone.
Meravigliosamente caotico nel suo singolare approccio, DLo è alla costante ricerca della continuità. Non è dato sapere se l’incontro avverrà o meno, un giorno o l’altro nel prossimo futuro. Le certezze, flebili ma luminose, sono quelle di sempre. I dubbi, legati soprattutto alla sua personalità dentro lo spogliatoio, appaiono ancora come dei blocchi di cemento stretti attorno alle sue caviglie.
A Los Angeles con la maglia dei Lakers è riuscito a farsi solo dei nemici, tradendo ingenuamente la loro fiducia e palesando una naturale mancanza di leadership. Troppo acerbo per un contesto così pressante. A Brooklyn, sotto la guida di Coach Kenny Atkinson, ha sviluppato la sua pallacanestro liberamente ed è diventato All Star. A Minneapolis, assieme all’amico fraterno Karl-Anthony Towns, i presupposti sembrano persistere nel volerlo spingere lontano da quello che tutti immaginiamo possa diventare. Il tempo è ancora amico.
Marcus e Markieff Morris (L.A. Clippers e L.A. Lakers)
Cresciuti a North Philly, non molto lontano da Fairmount Park, i gemelli Marcus e Markieff Morris racchiudono in loro stessi tutte le contraddizioni che rendono la NBA una lega irrimediabilmente distante dall’ordinario. Due ragazzi che hanno condiviso ogni aspetto delle loro vite, comprese la povertà e la criminalità, e che sulla fiducia reciproca hanno modellato il loro mondo. Diretti, volgari e aggressivi. Due fottuti cani da combattimento, che hanno generato la loro pallacanestro senza badare troppo al fatto di conformarsi alle leggi del gioco.
Identici a livello fisico, tatuaggi inclusi, ma sensibilmente differenti nel modo di giocare. Attaccante completo Mook, difensore e rabbioso agonista Keef. Riduttivo, forse troppo, liquidarli in questa maniera ma non sarebbe comunque realistico parafrasarne l’essenza. I gemelli Morris sono giocatori che hanno nel loro DNA la capacità di determinare ed incidere all’interno di una partita. Possono farlo liberamente in entrambe le direzioni, anche durante una stessa gara, e rappresentano un focolaio di intensità da cui i compagni possono attingere per cavalcare il “momentum”.
Il lato oscuro del loro gioco si è palesato ciclicamente sin dall’ingresso nella lega. Fa parte di loro e non è scindibile dal resto. Se li vuoi nel tuo roster, devi prendere tutto il pacchetto. Compresi falli tecnici, trash talking e porcate di ogni genere. Mook e Keef non cambieranno mai e forse proprio qui risiede la loro originalità. Su e giù dagli inferi del basket, liberi di essere quello che sono.
Hassan Whiteside (Sacramento Kings)
Rimbalzista per definizione, tra i migliori stoppatori della lega. Hassan Whiteside ha visto il suo personaggio essere scritto e riscritto continuamente all’interno della maestosa sceneggiatura NBA durante la sua carriera. È partito come redivivo, sopravvissuto alla spirale avvolgente dell’anonimato, dopo aver rischiato di essere dimenticato per sempre nelle esperienze in D-League, Libano e Cina. Poi si è guadagnato una seconda occasione, diventando una potenziale stella con i Miami Heat. La franchigia apparentemente perfetta per uno come lui, che aveva respirato l’aria pesante del fallimento. Lo status in ascesa e i tanti milioni che lo hanno ricoperto dalla testa ai piedi, però, l’hanno cambiato.
Alla fine è stato lui a dimenticarsi di quello che era. Un centro forse un po’ anacronistico ma potenzialmente ancora dominante. Questo è Hassan Whiteside oggi. Un giocatore che idealmente farebbe comodo a tutti ma del quale nessuno sente di aver bisogno. Un ragazzo egocentrico e umorale, sia dentro lo spogliatoio che sul parquet, che non è mai riuscito a mettere radici nelle città in cui ha giocato. Dopo l’ultima discreta stagione a Portland, ora è tornato a Sacramento, dove iniziò la sua carriera dieci anni fa. Un contratto annuale che, da parte dei Kings, assomiglia tanto ad un rischio calcolato. L’ennesima interpretazione, scritta da una penna esitante alla ricerca della propria identità.
Dwight Howard (Philadelphia 76ers)
Dwight Howard è stato il protagonista di una delle storie più tristi e malinconiche, sportivamente parlando, dell’era recente della NBA. O, almeno, lo è stata fino alla scorsa stagione, quella del primo titolo vinto con la maglia dei Los Angeles Lakers. Il decadimento, tecnico e fisico, di Superman dal 2012 in poi, anno della sua prima esperienza in gialloviola al fianco di Kobe Bryant, è stato talmente inarrestabile da sollevare più di una riflessione attorno al suo personaggio.
Etichettato e banalizzato come pochi, il talento di Howard è stato ridimensionato alla velocità della luce in poco tempo dopo la fallimentare parentesi ai Lakers col Black Mamba. A nulla sono serviti il sodalizio con James Harden, il ritorno ad Atlanta, casa sua, la stagione a Charlotte e la comparsata a Washington. Howard è sceso giù fino a raschiare il fondo. Svuotato e disilluso. Prima di firmare per Los Angeles, la scorsa estate, tutti già pensavano a lui come ex giocatore. Stiamo parlando di un tre volte Defensive Player of the Year (2009-2011), leader indiscusso degli Orlando Magic finalisti NBA nel 2009. Un futuro hall of famer, che vi piaccia o no. Howard nel suo prime è stato un giocatore dominante capace di trasformare i compagni in qualcosa di più del loro reale valore.
Poi il suo legame con il gioco si è deteriorato e tutti si sono sentiti in dovere di ricoprirlo di insulti, alcuni attaccando persino la sua sessualità. Nei Lakers di LeBron James e Anthony Davis ha cambiato radicalmente il suo approccio alla pallacanestro. È diventato uomo delle piccole cose, generoso e dinamico. È tornato ad interpretare il suo ruolo di sensazionale rim protector e specialista difensivo, anche con un minutaggio ridotto. Un compagno di squadra vero, che si è lasciato alle spalle il suo ingombrante ego e ha costretto nell’ombra quei demoni interiori che hanno cercato di opprimerlo per tutta la carriera. Quale Howard ci troveremo di fronte a Philadelphia? Una risposta che, evidentemente, Doc Rivers e Daryl Morey pensano di conoscere.
Bobby Portis (Milwaukee Bucks)
Classe 1995, prodotto di University of Arkansas come “Iso Joe” Johnson, Corliss Williamson e Patrick Beverly, Bobby Portis è ritenuto ancora oggi da appassionati e addetti ai lavori un oggetto misterioso. Qualche lampo eclatante con la maglia dei Chicago Bulls, oltre ad una famosa scazzottata con l’allora compagno di squadra Nikola Mirotić, una più che discreta mezza stagione coi Wizards e, infine, il buco nero di New York.
Al di là della facile retorica che si potrebbe sprecare riguardo la sua “testa calda”, non si può che ascriverne il talento tra i più suggestivi ed interessanti della sua classe. Portis è un lungo moderno, presente sotto i tabelloni e bravo ad aprire il campo. Mani morbide e competenti esprimono il suo essere cestistico, pervaso da un temperamento intenso. La sua versatilità, ancora in divenire, ha attirato le attenzioni dei Milwaukee Bucks, alla disperata ricerca di role players per infarcire il supporting cast da mettere a disposizione del divino Giannis. Portis è un ragazzo difficile e anche per questo non si è ancora ritagliato il suo spazio nella lega. Sul parquet è uno che tende a lasciare il segno e che non si accontenta di scivolare lontano dalla partita. Come tutti quelli generosi e passionali, però, manca pericolosamente di equilibrio. Quando le cose non vanno nella direzione giusta, la sua presenza sul parquet può rivelarsi deleteria. Un eterno nemico di sé stesso.
James Johnson (Dallas Mavericks)
Se c’è un giocatore nella NBA contemporanea che sfugge ad ogni classificazione, tecnica e non, e dal quale non sai letteralmente mai cosa aspettarti sul parquet, quello è James Johnson. Ex promessa del kickboxing e cintura nera nel karate, il prodotto di Wake Forest, neo acquisto dei Dallas Mavericks, è forse uno dei più enigmatici e anticonvenzionali talenti che si possano ammirare attualmente nella lega.
Difficile trovargli un ruolo vero e proprio in campo anche se formalmente JJ viene considerato un 3 o 4, a seconda delle situazioni. Una cosa che rapisce immediatamente, vedendolo giocare, è la sua intelligenza cestistica. Sul parquet, Johnson sa fare un po’ di tutto. Si vede che ha imparato in fretta, lontano da una formazione scolastica, spinto da una profonda sete di conoscenza. Potremmo definirlo una point forward, ammirando la sua visione di gioco ricercata, oppure un all-around player, forse esagerando un attimino.
Malgrado delle qualità innegabili, la sua lunga carriera NBA è stata perlopiù anonima. Solo nei quattro anni a Miami con Coach Erik Spoelstra (2016-2020) è riuscito a farsi capire e a dimostrare il suo valore. Svogliato, cupo e un po’ intimidatorio. Johnson potrebbe tranquillamente terminare una gara in tripla doppia, decidendola nei possessi finali, e poi, in quella successiva, sbagliare ogni singola scelta in campo. No half measures. A quasi 34 anni, una franchigia in ascesa come Dallas ha deciso di puntare su di lui. Ha scelto l’uomo, ancora prima del giocatore. Un po’ come aveva fatto Pat Riley con i suoi Heat nel 2016. Tocca ora a Coach Rick Carlisle cercare la chiave per decifrare l’enigma. Dovesse trovarla…
Patrick Beverley (L.A. Clippers)
Lo chiamano “Mr. 94 Feet” perchè riesce sempre ad incidere con la sua intensità, attacco e difesa, lungo i 28 metri. Ogni partita. Ogni possesso. Senza risparmiare la più piccola goccia di sudore. Uno dei trash talker più pazzi della NBA, degno erede (e la maglia numero 21 è lì a testimoniarlo) di Kevin Garnett, che nella sua Chicago (Beverley viene dal West Side della Windy City) ha dominato ai tempi della Farragut Academy assieme a Ronnie Fields.
Pat è l’anima dei Los Angeles Clippers, tra i migliori difensori della lega nel suo ruolo. Un reietto della NBA, snobbato per anni prima che i Rockets si rendessero conto di quello che avrebbe potuto dare sul parquet. È uno convinto, Patrick Beverley, e di questa sua imperturbabile “confidence” si nutre quotidianamente. Il suo gioco sfrontato, aggressivo e dispersivo vive e muore sulle increspature di questa fiducia. Non fa mai prigionieri e dice sempre quello che pensa, il più delle volte senza pensare alle conseguenze. Corre e sbava su qualsiasi avversario, pensando seriamente di poterlo fermare in ogni possesso. Non importa se sono più grossi o talentuosi di lui. Il suo è uno stato mentale e non potrebbe essere altrimenti. Patrick non è stato baciato dalla grandezza. Nella sua carriera si è dovuto sudare tutto e ogni volta che ha sbagliato, è tornato indietro senza battere ciglio.
Beverley è il perfetto underdog e su questa caratterizzazione ha costruito il suo personaggio. La scorsa stagione, però, ha subito concretamente il peso del fallimento. Essere la point guard titolare di una contender, per la prima volta da quando gioca in NBA, che viene sbattuta fuori mestamente dai Playoffs, facendosi per giunta rimontare dal 3-1, è stata una situazione complessa da processare. Smettere di essere un antieroe, ora che l’asticella si è alzata anche per lui, forse, lo è ancora di più.
Draymond Green (Golden State Warriors)
“The Dancing Bear” Draymond Green è un vincente. Tre titoli NBA, cinque Finals consecutive giocate (2015-2019) e il premio di Defensive Player of the Year conquistato nel 2017. Assieme a Steph Curry è stato il giocatore chiave della filosofia cestistica dei Golden State Warriors allenati da Steve Kerr. Green è stato il playmaker e il centro della squadra, il leader emotivo, dentro e fuori dal campo, e l’uomo più importante per garantire la stabilità dello spogliatoio. La sua nota sospensione in gara 5 delle Finals del 2016, quelle della clamorosa rimonta dei Cleveland Cavaliers di LeBron James dal 3-1, viene additata ancora oggi da tutti gli storici come l’episodio determinante di quella indelebile debacle dei Warriors. Non Curry, dunque, e nemmeno Thompson. È Draymond Green l’equilibratore e facilitatore della dinastia dei Dubs.
Lui ha convinto Kevin Durant (altra personalità forte) a trasferirsi nella Baia nell’estate 2016 e sempre lui, verosimilmente, l’ha spinto ad andarsene tre anni dopo. Green deve il suo successo al suo essere perfettamente funzionale al sistema di Coach Kerr, determinato in gran parte dal proprio QI cestistico, evolutosi durante i quattro anni trascorsi sotto la guida di Tom Izzo a Michigan State. Autentico e schietto. Brutalmente onesto con chiunque gli chieda o meno un parere. Draymond è una bomba ad orologeria, contenuta con sapienza dall’organizzazione Warriors e sfruttata a proprio vantaggio. Capro espiatorio o eroe. Vittima e carnefice. Nessuno meglio di Dray per fare e disfare ogni cosa. In battaglia, però, di uno così al proprio fianco non si farebbe mai a meno. Uno vero, che vive e muore seguendo l’istinto, senza sapere dove questo lo porterà.
DeMarcus Cousins (Houston Rockets)
DMC, che talento straordinario. Non bastavano una testaccia pazza e un carattere insopportabile ad intossicare la sua pallacanestro, irrequieta ma esteticamente divina. Sono arrivati anche due infortuni bastardi, due potenziali career ending, quello al tendine d’Achille sinistro nel 2018, quando vestiva la maglia dei New Orleans Pelicans, e quello al crociato anteriore del ginocchio sinistro, durante la preseason coi Lakers nell’estate del 2019, a devastare il suo percorso nella NBA.
La nuova opportunità con gli Houston Rockets arriva dopo un calvario fisico che ne ha messo a dura prova la stabilità emotiva. Prima di farsi male, Cousins era senza dubbio uno dei migliori lunghi della lega. Mani artistiche e movimenti governati da classe e sostanza. Un ballerino aggraziato con un “fuck you” stampato perennemente in faccia. Non esiste un arbitro che Cousins non abbia apostrofato ben al di sopra della tolleranza consentita o fallo tecnico che gli sia stato risparmiato per non aver messo freno al suo caratteraccio. Il suo atteggiamento irascibile e prevaricante ha spesso terrorizzato media e compagni di squadra, facendo terra bruciata attorno a lui ovunque andasse. Eppure sul parquet trattava la palla con rispetto e devozione, come se nulla fosse più importante. Boogie non ha mai giocato un possesso scimmiottando qualcun altro. Ha sempre fatto di testa sua. Un giocatore non si può ammirare o amare col condizionale: prendere o lasciare.
“Nobody can tell you what your destiny is…to this day, there’s people telling me what I can’t do or who I am as a person. Fuck you! ”.
Kyrie Irving (Brooklyn Nets)
Pochi giocatori al mondo hanno deciso con un loro canestro una finale NBA. Michael Jordan, Robert Horry, Ray Allen sono quelli che ricordiamo più facilmente per vicinanza temporale e per una narrativa accuratamente che ritorna ciclicamente a batter cassa ogni volta che si parla dei momenti leggendari. Kyrie Irving è riuscito a farlo in una gara 7 giocata in trasferta, dopo aver rimontato dal 3-1 la squadra che aveva totalizzato il miglior record di sempre in regular season. Una tripla simbolo di un’impresa monumentale, eternizzata dalla sua unicità (nessuna squadra, oltre a quei Cleveland Cavs, aveva mai recuperato dal 3-1 in una serie di finale) e dalle gesta di LeBron James, l’uomo delle promesse mantenute.
Non è un giocatore come gli altri, Kyrie. Uno dei migliori ball handler che si siano mai visti, praticamente illimitato nel suo potenziale offensivo. La palla tra le sue mani sembra essere più leggera e malleabile. Irving fa sembrare facile quello che facile non è. Un vero artista di questo, un potenziale MVP per qualità tecniche ed estetiche, tanto pericoloso per le difese avversarie quanto per le dinamiche di spogliatoio. Il suo lato immaturo ed egoista, tralasciando quello terrapiattista, gli ha impedito di mettersi in proprio dopo il titolo vinto nel 2016. Si è fatto cacciare dai Cavs, imbastendo uno stupido dualismo con LeBron, e poi ha fatto lo stesso con i Boston Celtics, intossicando di personalismi le relazioni con i suoi compagni di squadra più giovani. Il “ritorno” romantico ai Nets, seguendo il suo amore giovanile e l’influenza di papà Drederick, non è ancora iniziato. Poche partite la scorsa stagione e tanto rumore di fondo, nascosto alla meno peggio alle orecchie della stampa. Lui e KD volevano giocare assieme ed è per questo che nell’estate 2019 hanno deciso di unire le forze. Hanno scelto Brooklyn e i più maligni dicono che abbiano pure deciso di far cacciare Coach Kenny Atkinson, allontanato poco prima della sospensione a causa del Covid. L’arrivo di Steve Nash, alla prima esperienza da head coach, sulla panchina dei Nets è stato caldeggiato da Durant, che aveva lavorato con lui ai Warriors. Pur stimando il nuovo arrivato, Irving è convinto che giocatori come lui e KD non abbiano realmente bisogno di un allenatore. Non ne è solo convinto, l’ha pure dichiarato.
“I don’t really see us having a head coach. You know what I mean? KD could be a head coach. I could be a head coach”. Decisamente non il migliore dei preamboli. In merito al licenziamento di Atkinson, qualche mese fa Bleacher Report si chiedeva: “Is Kyrie Irving a Coach Killer?”.
I puntini di sospensione si accavallano e costellano caoticamente il cielo di Brooklyn. Illuminano la scena in silenzio, in attesa una nuova alba.