In questi primi due mesi di Regular Season, la brillante stella di Luka Dončić ha catalizzato l’attenzione di una miriade di appassionati e addetti ai lavori. Oltre ai successi individuali, con record di precocità frantumati ogni giorno e una legittima presenza nei candidati all’MVP, è però importante ricordare come anche il rendimento della sua squadra si stia rivelando assolutamente di alto livello e ben oltre le aspettative. Al momento della stesura dell’articolo, i Dallas Mavericks vantano un record di 18-8, che li piazza al terzo posto nella Western Conference, e hanno vinto 12 delle ultime 14 partite.
Sembra davvero essere l’anno giusto per tornare ai playoff dopo tre anni di assenza e addirittura lottare per la vittoria di quel titolo di Division che manca ormai dal 2010. Ma è tutto merito di Dončić, o vale la pena addentrarsi in un’analisi più approfondita della squadra?
È innanzitutto opportuno tornare ai pronostici di inizio stagione, nei quali Dallas veniva vista perlopiù come una pretendente agli ultimi posti validi per i playoff. Sia Bleacher Report sia ESPN concordavano nel considerare i texani una squadra tra le 40 e le 45 vittorie: una previsione decisamente comprensibile, viste anche le opinioni sulla free agency appena conclusa. La rifirma di Kristaps Porziņģis, blindato con un contratto quinquennale al massimo salariale, era stata l’unica mossa riguardante un giocatore in grado di spostare (almeno sulla carta) gli equilibri. Tutto il resto consisteva nella conferma di Powell, Finney-Smith e Kleber, comprimari che si erano ben comportati nelle ultime stagioni, e nell’aggiunta di un paio di pedine potenzialmente utili alla causa, come Curry e Marjanovic.
Si parla dunque di buoni interpreti, ma nessuna stella in grado di accendere le fantasie dei tifosi. L’impressione che si aveva ad agosto era sostanzialmente la stessa che, all’apparenza, il campo sta confermando a dicembre, e che è stata perfettamente sintetizzata da un tweet di Tim Cato, uno dei giornalisti più autorevoli dell’ambiente vicino ai Mavericks:
La sensazione più immediata sembra dunque essersi rilevata corretta, con Dončić e Porziņģis come le due stelle della squadra e poco altro intorno a loro. In effetti nessuno degli altri giocatori sta effettivamente giocando molto meglio del previsto, poiché il loro rendimento è complessivamente buono ma non è ancora stato individuato uno stabile terzo violino che dia manforte ai due giovani europei. È però necessario partire proprio da loro per chiarire alcuni aspetti: su Dončić si è scritto e detto tantissimo, anche su questo sito, perciò sarebbe inutile dilungarsi su quanto il suo rendimento sia positivo, la sua centralità indiscutibile e di conseguenza su quanti meriti abbia sulle vittorie del suo team; su Porziņģis, invece, c’è ancora molto da dire.
Kristaps Porziņģis
Il lettone è rientrato in campo dopo circa 20 mesi di assenza e le sue prestazioni, com’era prevedibile, non sono state immediatamente a livello di un All-Star. Senza soffermarmi più di tanto sulle statistiche, la cosa che preoccupava maggiormente del lettone era il suo modo di stare in campo: sempre lontano dal canestro, tanti tiri dalla media a bassa percentuale e soprattutto una generica mancanza di intensità, testimoniata anche da molte situazioni in cui Porziņģis sembrava quasi voler evitare i contatti.
Il problema non sussisteva, chiaramente, nella sua dimensione perimetrale (anche perché a Dallas la figura del “lungo tiratore ed europeo” non è certamente una novità) ma nel mancato sfruttamento dei suoi mezzi fisici, anche nelle situazioni che lo richiedevano. Emblematico questo possesso in post contro i Celtics: Marcus Smart è sicuramente uno dei migliori difensori NBA, ma nei confronti del lettone ha comunque un debito di 10 chili e quasi 30 centimetri; ciononostante, l’unica soluzione trovata da Kristaps è un debole e inefficace fadeaway.
Dopo un trittico di partite terribili, ovvero la doppia sconfitta con i Knicks e appunto il match con i Celtics chiuso con 1/11 al tiro, qualcosa sta lentamente migliorando. Non tanto nei tabellini, dove l’apporto continua ad essere lontano dalle sue potenzialità soprattutto a livello di percentuali, ma proprio nel suo livello di fiducia sul parquet in entrambe le metà campo. La sua rim protection inizia pian piano a migliorare, e la sua influenza si è subito avvertita: i Mavericks sono entrati infatti in top-15 sia in Defensive Rating (quattordicesimi con 108.0) che nella percentuale al tiro concessa agli avversari (dodicesimi con il 44.4% di media).
Considerando che Dallas nelle prime partite orbitava intorno alla ventesima posizione in entrambi i valori e che la metà campo difensiva era considerata il tallone d’Achille dei texani, si può parlare di progressi non rivoluzionari ma sicuramente degni di nota. Qui sotto due stoppate di Porziņģis, statistica in cui è sempre rimasto a livello élite, che mostrano anche come la sua fluidità nei movimenti sia ancora ridotta ma sicuramente migliorata: nella prima impedisce una facile schiacciata a Tristan Thompson, e nella seconda tiene in 1 vs 1 contro Bogdanović, negandogli la conclusione al ferro.
Per quanto riguarda la metà campo offensiva, i lavori sono ancora in corso. Porziņģis sta giocando infatti una pallacanestro profondamente diversa da quella a cui era abituato ai tempi dei New York Knicks: passare da un attacco a tratti disfunzionale, con un suo gioco in post come prima (e spesso unica) opzione a uno con molto più giro palla e letture da eseguire in cui la centralità di Dončić è lampante, è sicuramente un’operazione complessa. Riuscire a ritagliarsi il proprio spazio in un contesto del genere richiederà tempo.
Lo stesso giocatore ha dichiarato a The Athletic:
Sto cercando di integrarmi nel nostro attacco, nel nostro sistema e nel nostro modo di giocare. In alcune sere ho molte opportunità, in altre no. Luka sta cercando di coinvolgermi il più possibile, ma molte volte gli diamo semplicemente la palla in mano e lo lasciamo andare dove vuole. Sta facendo qualcosa di notevole. All’inizio ero frustrato perché pensavo che sarei tornato dall’infortunio e avrei subito messo su i miei soliti numeri. Non sto tirando bene, sto avendo opportunità e tiri aperti ed è il mio lavoro segnarli, ma stiamo vincendo, stiamo crescendo e ci stiamo divertendo, e questo è tutto ciò che conta.
Dispiacere, ma anche tanta voglia di superare le difficoltà, probabilmente continuando a ridurre tiri dal post e dalla media in favore di più pick and pop per aprire il campo. Siamo ancora lontani, dunque, dall’aver visto il miglior Porziņģis possibile.
Tim Hardaway Jr.
Torniamo ora al tweet di Tim Cato. L’inizio di stagione dei Mavs era stato caratterizzato da una grandissima variabilità nei quintetti titolari utilizzati da coach Carlisle, sintomatica di un allenatore ancora alla ricerca della giusta ricetta per sfruttare al meglio il talento a sua disposizione e che dava la sensazione di adattarsi molto spesso al tipo di avversario affrontato. Però, dalla partita contro gli Warriors del 20 novembre e nelle dieci gare successive, lo starting five è sempre stato lo stesso: Luka Dončić, Tim Hardaway Jr., Dorian Finney-Smith, Kristaps Porziņģis e Dwight Powell. La promozione in quintetto di THJ era stata argomento di dibattito fin dalla preseason, con il giocatore che si era detto disposto a ricoprire qualunque ruolo, ma che chiaramente essere nei primi cinque avrebbe avuto un significato per lui. Ebbene, in questo caso le cifre parlano sostanzialmente da sole.
Nelle prime 13 partite, disputate partendo dalla panchina, Hardaway Jr. aveva una media di 10.2 punti in 22.2 minuti, con il 34% dal campo ed il 29.5% da 3 punti; nelle successive 10, in cui è invece partito titolare, le sue medie parlano di 17.1 punti in 28.2 minuti, il 54.2% dal campo ed il 47.8% da tre (dati nba.com). Non è il numero di conclusioni a essere aumentato, quanto piuttosto la qualità delle stesse: molti più tiri dagli scarichi e con maggiore spazio. Effetto Dončić, sicuramente, ma forse anche una maggiore fiducia avvertita dal giocatore, che a inizio anno aveva dichiarato di aver studiato Michael Finley ai tempi in cui giocava con Steve Nash e Dirk Nowitzki, vedendo un parallelismo con lui, Dončić e Porziņģis.
Il figlio d’arte sembra dunque aver tolto i panni del realizzatore in uscita dalla panchina, ruolo in cui le sue forzature al tiro si stavano trasformando in una costante, per vestire quelli del tiratore sugli scarichi che punisce la difesa quando concede troppe attenzioni al duo europeo. Si parla comunque di un equilibrio precario, dato anche il campione di partite è ancora molto ridotto, ma che sarà fondamentale per il successo di Dallas nel corso della stagione.
Dorian Finney-Smith
Dorian Finney-Smith sta giocando, al momento, la miglior pallacanestro della sua carriera e a breve avrà probabilmente uno spazio a lui dedicato qui su The Shot. Sta registrando i suoi massimi storici in minuti giocati, punti, percentuali dal campo e da tre punti, Box Plus-Minus e Net Rating. La sua grande adattabilità lo rende un elemento preziosissimo per i Mavericks: è infatti l’unico giocatore nel roster a poter giocare indifferentemente negli spot di 3 e 4 portando energia, difesa e un tiro sugli scarichi in miglioramento di anno in anno.
Un compagno di squadra ideale per Dončić, che sta dimostrando di meritarsi l’estensione triennale firmata quest’estate. Anche Dwight Powell sta beneficiando della presenza dello sloveno, sfruttando al meglio i suoi punti di forza. Il canadese, per la prima volta in carriera stabilmente titolare, sta prendendo il 74.5% dei suoi tiri entro i 3 piedi (circa 90 centimetri) dal canestro rispetto al 57.8% della scorsa stagione, a testimonianza dei tantissimi pick and roll giocati con Luka. La sua percentuale dal campo ne sta notevolmente beneficiando, avendo raggiunto un notevole 64.9%. Meno conclusioni tentate ma sicuramente maggior qualità delle stesse, con una presa di coscienza del proprio ruolo.
Rick Carlisle
Si è discusso del re, del suo alfiere e di tante pedine messe al punto giusto, ma sarebbe impossibile non citare la mano che muove sapientemente i pezzi sulla scacchiera. Rick Carlisle è, se si esclude l’inarrivabile Popovich, l’allenatore in carica da più tempo su una panchina NBA insieme a Erik Spoelstra. Il titolo NBA conquistato nel 2011 gli ha fornito meritati riconoscimenti, ma anche negli anni successivi il sosia di Jim Carrey si è dimostrato la certezza dei Dallas Mavericks, il punto fermo su cui fare riferimento anche nei momenti più difficili. La completa fiducia fornitagli da Cuban e Donnie Nelson, evento molto raro in un front office NBA, ha dei solidi fondamenti: anche nelle annate in cui il roster fornitogli era oggettivamente mediocre, Carlisle ha sempre tirato fuori qualche coniglio dal suo cilindro.
Il suo sistema offensivo si basa sul concetto di read and react, in cui ogni giocatore è chiamato ad effettuare letture e a reagire di conseguenza. È strutturato, ma non dogmatico, e infatti è mutato nel tempo per adattarsi sia alle recenti tendenze del gioco sia ai nuovi giocatori presenti nel roster. Ad oggi i Mavericks si appoggiano molto di più sul tiro da 3, conservando comunque la tendenza a giocare a un ritmo leggermente più basso rispetto al resto della lega.
La miglior qualità di Carlisle rimane, però, la capacità di effettuare aggiustamenti a gara in corso, variando i quintetti o addirittura modificando il piano partita. L’esempio più lampante di questa prima parte di stagione è sicuramente la mobile zone messa in campo dal 3° quarto in poi nella partita contro i Lakers, mandando in tilt l’attacco avversario e dando il via al break decisivo per la vittoria finale. L’azione tipica dei gialloviola, ingabbiati da Carlisle, è stata quella di cinque giocatori fermi a passarsi il pallone per poi, come si vede nella clip qui sotto, prendere un tiro totalmente senza ritmo.
Dopo tre stagioni decisamente sottotono, i Dallas Mavericks sembrano essere ripartiti in quarta, con l’obiettivo di tornare alla competitività costante tipica dell’era Cuban. La lunghezza della Regular Season e la maggior profondità di molte avversarie suggerirebbero di moderare gli entusiasmi, ma è anche vero che i margini di miglioramento di Porzingis sono a oggi sconosciuti e i meccanismi di gioco di Carlisle sono ormai perfettamente oliati. Il tutto, ovviamente, con la ciliegina sulla torta di un giovane sloveno che promette di far vedere grandi cose nel prossimo decennio. Che la ricostruzione post-Nowitzki si riveli meno dolorosa di quanto prospettato?