Quanto tempo occorre per demolire, o almeno minare alla base, parte dell’iconografia di uno degli sportivi più influenti del nostro tempo? Nel 2019 quasi 2020 lo spazio di un tweet. O, più precisamente, lo spazio di un’intervista che commenta il tweet destinato a cambiare per sempre la visione della NBA globale e globalizzata che eravamo abituati a intendere, pensare, raccontare. A noi stessi prima che agli altri.
Dichiarando, in merito all’ormai famigerato Moreygate, che il general manager dei Rockets “abbia parlato senza essere informato sull’argomento”, LeBron James è riuscito in un back to back ben più rimarchevole (in senso negativo, ovviamente) di quello compiuto a suo tempo con i Miami Heat: da un lato ha ridimensionato quell’idea del ‘more than an athlete’ che gli aveva conferito una certa credibilità off the court all’epoca del suo confronto, più o meno a distanza, con Donald Trump; dall’altro ci ha costretto, ci costringe e (probabilmente) ci costringerà a cambiare la nostra percezione del ruolo degli sportivi di primo livello in dinamiche socio-culturali spesso molto più grandi di chi si ritiene ‘larger than life’ sempre, comunque e dovunque.
E i successivi tweet ‘chiarificatori’ – che, come sempre accade, hanno complicato l’assunto invece di semplificarlo – non cambiano di molto la sostanza delle cose: e cioè definire, ammesso che sia possibile farlo e che sia possibile farlo adesso, quali siano i limiti (spaziali, temporali e culturali) entro i quali un atleta di un certo status possa legittimamente esprimersi con cognizione di causa su argomenti di un certo tipo. Per evitare ed evitarsi improbabili tentativi di retromarcia che sfocino nel peggior autogol comunicativo dai tempi del “not one, not two, not three” della prima ‘Decision’.
C’è, però, una doverosa premessa da fare alle righe che seguiranno. Che siate rimasti delusi o meno dalle parole di LBJ – e lo scrivente, per il poco che vale la sua opinione, rientra nella prima categoria – la complessità della questione e le relative conseguenze impone una stretta attinenza ai (pochi) elementi oggettivi per poi provare a sviluppare un ragionamento che può portare a tante conclusioni quanti siano i diversi punti di vista. Senza che uno debba necessariamente escluderne un altro in termini di validità ed esattezza tout court.
Partiamo, quindi, da quello che mi sembra l’unico punto fermo. LeBron James – e, come lui, tutti gli altri LeBron James di NBA e NFL che sfruttando l’onda lunga del caso Kaepernick, hanno trovato modi e tempi per dire la loro sulla questione razziale e sulle condizioni delle minoranze negli Stati Uniti – non è un diplomatico né tantomeno un politico. LeBron James è un atleta il cui unico ‘obbligo’ nei confronti di chi lo paga tanto e bene è quello di fornire prestazioni sul campo all’altezza del salario che percepisce. Che scelga di schierarsi e prendere posizione in merito a temi di pressante ed attuale rilevanza sociale non dovrebbe perciò essere qualcosa di scontato o dovuto.
Tanto più se si pensa che il suo status di ‘privilegiato’ possa facilmente essere strumentalizzato fino a degenerare nello “shut up and dribble” che abbiamo imparato a conoscere anche alle nostre latitudini, come possono tranquillamente testimoniare gli account social di Claudio Marchisio che, a pochi giorni dalla finale di Champions League del 2017, si era permesso di far notare il dramma dei migranti nel Mediterraneo.
Il condizionale, però, è d’obbligo nella misura in cui si ritiene che, nell’era del brand activism e dello sport come veicolo principale dei messaggi di pace, uguaglianza e integrazione, simili icone trasversali non possano – anzi non debbano – esimersi dal “dire qualcosa di sinistra” proprio in virtù di questa loro riconoscibilità globale. Una riconoscibilità che non consente ai LeBron James di tutto il mondo il lusso di tacere e che impone un adeguamento ad un politically correct unilaterale e figlio di una scala valoriale costruita su semplificazioni e ragionamenti di comodo.
In questo pezzo di Ultimo Uomo dedicato al significato del saluto militare dei calciatori della Nazionale turca nei giorni in cui Erdogan sta provando a riscrivere la geopolitica di un territorio dagli equilibri già precedentemente instabili, Dario Saltari si è chiesto “a quanti altri calciatori abbiamo chiesto di rendere conto delle proprie posizioni politiche, o delle loro foto con leader politici, o scritto direttamente per invitarli a prendere una posizione, in un contesto molto meno difficile di quello turco”, centrando, a mio parere, il nocciolo di quella questione e di questa: in che misura è giusto aspettarsi, e talvolta pretendere, una presa di posizione su certi argomenti? E, soprattutto, nel caso in cui la presa di posizione non corrisponda alla nostra idea di giusto o sbagliato, può la successiva gogna mediatica ridimensionare la portata delle prese di posizione del passato più o meno recente?
A parere di chi vi scrive, no. Il fatto che LeBron James si sia espresso in un certo modo su Morey non deve, non dovrebbe, togliere nulla a quanto detto, fatto e pensato dallo stesso per contrastare la divisività di certe politiche di Trump. E questo nonostante la delusione per una certa mancanza di coerenza di fondo sia assolutamente comprensibile. Soprattutto nel momento in cui, poi, riemerge questo tweet del gennaio 2018 a fare da contraltare a quello di poche ore fa in cui, secondo LeBron, il coraggio di esprimere le proprie idee è realmente tale solo se le idee vengono espresse in modi e tempi che non urtino la sensibilità di nessuno.
È molto meno comprensibile, invece, voler associare due situazioni diverse – per contesto e conoscenza effettiva dello stesso da parte dei diretti interessati – in termini di deminutio di una delle due, supponendo sia più facile (termine che ho letto a più riprese sui vari social) o più comodo, o più conveniente, esporsi in un certo modo solo all’interno di una sedicente comfort zone dai confini di natura economica più che culturale.
Provando a mettere da parte l’irragionevolezza, la superficialità e la pericolosità di una simile argomentazione – perché, se fosse davvero così facile, dubito che nel 2019 quasi 2020 di cui sopra sia ancora necessario dover parlare di fenomeni emergenziali che erano tali già nei primi anni ’50 – mi viene da pensare che Chris Paul sia stato meno cerchiobottista di quel che si è pensato quando ha ammesso di “non sapere cosa stia accadendo”, ribadendo la necessità di informarsi sui fatti.
Eppure anche questo è stato interpretato come un segno di condiscendenza di comodo verso quel mercato di 300 milioni di tifosi e dal valore di oltre 4 miliardi di dollari che fa della NBA quello che è oggi. Nel bene e nel male, a meno che non si voglia vivere in una sorta di mondo delle favole in cui una delle leghe più avanzate del pianeta non deve mai fare i conti con quegli inevitabili lati oscuri che, nel mondo reale, portano Adam Silver a dover maneggiare la non sempre nobile arte del ‘politichese’ espressa a mezzo di comunicato.
A questo punto, quindi, conviene chiedersi e chiederci non da che parte stare ma cosa realmente pretendiamo e ci aspettiamo da(i) LeBron James, in questa continua banalizzazione e semplificazione di realtà sempre più complesse, spinti dalla costante ricerca dell’opinione di qualcuno più ricco, famoso, importante e influente di noi che ci faccia sentire sempre e comunque dalla parte del giusto. Magari ergendolo a modello di comportamento ed esempio da imitare nell’attesa del primo passo falso che lo faccia scivolare giù da quel piedistallo sul quale noi stessi, prima di altri, abbiamo contribuito a farlo salire.
Non ci sono mezze misure: o accettiamo gli atleti impermeabili a qualsiasi cosa capiti loro intorno, riconducendo tutto alla rassicurante e univoca logica del campo e solo di quello “e tutto il mondo fuori” oppure cominciamo realmente a fare i conti con uomini, prima ancora che giocatori, magari più attenti alle realtà geograficamente e culturalmente loro più vicine e, per questo, inevitabilmente inclini a quelle che Sam Amick su The Atletic ha definito “le insidie nel dire sempre e comunque la cosa sbagliata” in merito a tutte le altre.
Perché il “non penso che ogni problema debba diventare il problema di tutti” non è nient’altro che questo: l’ammissione, goffa ma sincera, della marginalità di una questione che non sente sua e della comunità che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà. Senza dover, per questo, evocare un “Republicans buy sneakers too” 2.0 o scomodarsi in paragoni senza senso con la vicenda di Enes Kanter, ormai più un perseguitato politico che un giocatore ‘che dice la sua’.
Il paragone da fare, semmai, è quello con noi stessi. Perché la figura dell’atleta paladino degli ultimi del mondo, parte della narrazione superomistica che caratterizza LeBron e i suoi fratelli, ci piace e ci colpisce fino a quando non emerge quel lato umano (e, quindi, fallace) che ci spinge a chiederci cosa faremmo noi al suo posto. Con la risposta che è spesso contenuta nella successiva critica a quel detto o non detto che è di LeBron James ma anche nostro.